Walter Mitty, timido addetto all'archivio negativi di Life, è un sognatore che sfugge alla realtà quotidiana con folli fughe immaginarie, finché un giorno, a causa di una foto perduta, finirà in una serie di spericolate avventure ai confini del mondo.
Remake dell'omonimo film con Danny Kaye del 1947, questa versione aggiorna sogni e avventure dell'impiegato vessato da tutti, cercando di accontentare anche il pubblico più giovane con mirabolanti sequenze da film di supereroi o di catastrofi, che sono però la parte meno interessante del film. La versione di Ben Stiller (qui nel doppio impegno di attore protagonista e regista) è raffinata, romantica e un po' demodé, come il fotografo mitizzato dal protagonista (Sean Penn), che usa ancora la pellicola e non ha un cellulare. Il MacGuffin che dà il la a tutte le avventure "vere" e sempre più folli di Mitty è proprio un (anacronistico) negativo perduto, che il protagonista cerca in giro per il mondo sulle tracce del fotografo. Su questo plot si innesta il tema della fine della stampa tradizionale e dell'avvento del mondo digitale, nonché delle brutali "ristrutturazioni" societarie con conseguenti licenziamenti indiscriminati.
Come regista Stiller non lesina sulla spettacolarità, ma ci sorprende pure con eleganti dissolvenze incrociate o con ben congegnate sequenze come quella splendida costruita sul brano Space Oddity. Come attore invece Stiller è più misurato, incarnando in modo efficace un Walter Mitty timido ma non sottomesso, sognatore ma non imbranato. Pur non essendo un film comico, I sogni segreti di Walter Mitty ci regala qualche scena molto divertente (la parodia di Benjamin Button o la scena del tuffo nell'Atlantico), ma qui la vena malinconica e romantica prevale su quella ridanciana e dissacrante presente nell'ottimo Tropic Thunder, precedente film del regista.
Meno originale del cult Zoolander – o del sopraccitato Tropic Thunder – I sogni segreti di Walter Mitty resta comunque un godibile film d'avventura, con una splendida fotografia, effetti speciali quanto basta e un bel finale buonista. Il classico film natalizio senza grandi pretese.
I sogni segreti di Walter Mitty (The Secret Life of Walter Mitty, USA 2013)
Un film di Ben Stiller. Con Ben Stiller, Kristen Wiig, Shirley MacLaine, Adam Scott, Kathryn Hahn.
Durata 114 min.
sabato 28 dicembre 2013
venerdì 13 dicembre 2013
Orrore dietro ai candelabri
Con sguardo lucido e impietoso Steven Soderbergh narra la storia di Scott Thorson, giovane amante del kitchissimo pianista americano Liberace, tra gli anni Settanta e gli Ottanta. Film realizzato per la tv via cavo HBO (quella di Trono di Spade) e uscito al cinema in Europa, si avvale di un cast straordinario, a partire dai due protagonisti, Michael Douglas e Matt Damon (entrambi nominati ai prossimi Golden Globe) assolutamente sorprendenti, e con dei comprimari di lusso quali Dan Aykroyd e un irresistibile Rob Lowe.
Sotto le apparenze del classico biopic, il regista dissimula un vero e proprio horror dalle tinte cronenberghiane nel suo soffermarsi sulle mutazioni chirurgiche dei corpi e sulla torbida relazione al limite dell'incesto, tra il pianista e il suo amante trasformato letteralmente in un simil-figlio. Un horror più psicologico che fisico, che costeggia appena il grottesco con la figura del chirurgo (Lowe liftato in maniera comica) realizzatore dei raccapriccianti desideri di Liberace, novello Pigmalione in versione gay. Ma il regista non giudica ne condanna e mette in scena la scabrosa vicenda con la freddezza di un entomologo davanti ad un curioso ed esotico insetto.
Film televisivo con il respiro del grande cinema, Behind the candelabra, oltre al cast notevole, si avvale di una messa in scena di ottimo livello, sia per i costumi ultra-kitsch di Liberace (Elton John in confronto è un'educanda) che per l'arredo delle sue magioni, nonché per l'impressionante lavoro di trucco, assolutamente perfetto nell'accompagnare le mutazioni fisiche dei protagonisti. Una nota merita pure lo stile libero che Soderbergh adotta, alternando riprese statiche da cinema classico a nervose sequenze con camera a mano oscillante, passando dall'iper-realismo all'onirico (si veda la dipartita di Liberace messa in scena in stile Rocky Horror), con una libertà che pare appartenere ormai solo a certi canali televisivi illuminati. Un piccolo grande film assolutamente da non perdere.
Dietro ai candelabri (Behind the Candelabra, USA 2013)
Un film di Steven Soderbergh.
Con Michael Douglas, Matt Damon, Dan Aykroyd, Scott Bakula, Rob Lowe.
Durata 118 min.
Sotto le apparenze del classico biopic, il regista dissimula un vero e proprio horror dalle tinte cronenberghiane nel suo soffermarsi sulle mutazioni chirurgiche dei corpi e sulla torbida relazione al limite dell'incesto, tra il pianista e il suo amante trasformato letteralmente in un simil-figlio. Un horror più psicologico che fisico, che costeggia appena il grottesco con la figura del chirurgo (Lowe liftato in maniera comica) realizzatore dei raccapriccianti desideri di Liberace, novello Pigmalione in versione gay. Ma il regista non giudica ne condanna e mette in scena la scabrosa vicenda con la freddezza di un entomologo davanti ad un curioso ed esotico insetto.
Film televisivo con il respiro del grande cinema, Behind the candelabra, oltre al cast notevole, si avvale di una messa in scena di ottimo livello, sia per i costumi ultra-kitsch di Liberace (Elton John in confronto è un'educanda) che per l'arredo delle sue magioni, nonché per l'impressionante lavoro di trucco, assolutamente perfetto nell'accompagnare le mutazioni fisiche dei protagonisti. Una nota merita pure lo stile libero che Soderbergh adotta, alternando riprese statiche da cinema classico a nervose sequenze con camera a mano oscillante, passando dall'iper-realismo all'onirico (si veda la dipartita di Liberace messa in scena in stile Rocky Horror), con una libertà che pare appartenere ormai solo a certi canali televisivi illuminati. Un piccolo grande film assolutamente da non perdere.
Dietro ai candelabri (Behind the Candelabra, USA 2013)
Un film di Steven Soderbergh.
Con Michael Douglas, Matt Damon, Dan Aykroyd, Scott Bakula, Rob Lowe.
Durata 118 min.
venerdì 29 novembre 2013
Brucia ragazza brucia
Secondo capitolo della trilogia creata da Suzanne Collins, La ragazza di fuoco segue la protagonista nelle vicende successive alla sua vittoria agli Hunger Games. Diventata – suo malgrado – un'eroina nazionale e un simbolo di speranza e riscatto per i distretti più poveri della federazione, Katniss causa più di un mal di pancia all'odioso Presidente Snow. Dopo averla blandita e minacciata inutilmente, Snow indirà un'edizione speciale dei Giochi solo per poterla screditare agli occhi dell'opinione pubblica e infine eliminarla. Ma le cose non andranno secondo i suoi piani: il capitolo finale (diviso in due film, come si usa ultimamente) è già in cantiere.
Rispetto al film che lo precede, questo secondo capitolo è più centrato sulle relazioni tra i protagonisti, approfondendo maggiormente il carattere di Katniss, ragazza tenace ma spaventata, eroina riluttante che poco a poco sta prendendo coscienza della sua forza, e giovane donna dalla vita sentimentalmente complicata. Inoltre viene delineato maggiormente il quadro politico e sociale, con il governo centrale fascista e oppressivo, la società decadente e opulenta di Capitol City in contrasto con le zone povere e depresse dei Distretti più remoti.
Il film in parte ripete lo schema del precedente, ma con sostanziali differenze per quanto riguarda i nuovi giochi: i partecipanti (tutti vincitori delle precedenti edizioni) sono poco entusiasti se non ostili all'idea di tornare nell'arena. La ribellione – come vedremo - serpeggia a tutti i livelli e porta i giocatori ad allearsi per sopravvivere e, soprattutto, per battere il vero nemico.
Nonostante il cambio di regia (Gary Ross qui è solo co-sceneggiatore), il film resta visivamente simile al precedente, ma il côte fantascientifico appare un po' più curato. C'è qualche piccolo ritocco nelle divise dei terribili Pacificatori (che bel nome orwelliano!), diventate decisamente anni Settanta, nell'architettura della capitale, che ora risulta un po' più verticale, e nei simulatori virtuali dei combattimenti. La fotografia ripropone i toni freddi e slavati nel Distretto 12, quelli più saturi nella capitale e nella lussureggiante area di gioco in stile Lost. Sempre strabilianti e fuori luogo le mise della svaporata Effie Trinket e i cangianti abiti da cerimonia della nostra eroina.
Le sequenze nell'arena, piena di trappole mortali (a dire il vero sempre più esagerate e improbabili), mantengono alta la tensione nell'ultima parte del film con una certa facilità, fino al pirotecnico colpo di scena finale, quando il teatro della finzione messo su per rincoglionire le masse, crolla letteralmente grazie all'indomabile Katniss.
Nel mettere in scena i giochi, il film gioca al rialzo rispetto al precedente, ma la parte più interessante è quella che li precede, con il suo lento accumulo di violenza, soprusi, ingiustizia e rabbia. E alla fine il percorso di consapevolezza di sé della nostra eroina è compiuto, come ci mostra l'ultimo primissimo piano sui suoi occhi fiammeggianti.
La ragazza di fuoco è puro intrattenimento, ben confezionato e ottimamente venduto. La cosa che stupisce di più è la capacità di trasformare delle tematiche che negli anni Settanta avrebbe prodotto un dignitoso film di fantascienza sociale, in un clamoroso franchising dagli incassi stratosferici. Segno dei tempi.
Hunger Games: La ragazza di fuoco (The Hunger Games: Catching Fire, USA 2013)
Un film di Francis Lawrence.
Con Jennifer Lawrence, Josh Hutcherson, Liam Hemsworth, Woody Harrelson, Elizabeth Banks, Lenny Kravitz, Philip Seymour Hoffman, Jeffrey Wright, Stanley Tucci, Donald Sutherland.
Durata 146 min.
Rispetto al film che lo precede, questo secondo capitolo è più centrato sulle relazioni tra i protagonisti, approfondendo maggiormente il carattere di Katniss, ragazza tenace ma spaventata, eroina riluttante che poco a poco sta prendendo coscienza della sua forza, e giovane donna dalla vita sentimentalmente complicata. Inoltre viene delineato maggiormente il quadro politico e sociale, con il governo centrale fascista e oppressivo, la società decadente e opulenta di Capitol City in contrasto con le zone povere e depresse dei Distretti più remoti.
Il film in parte ripete lo schema del precedente, ma con sostanziali differenze per quanto riguarda i nuovi giochi: i partecipanti (tutti vincitori delle precedenti edizioni) sono poco entusiasti se non ostili all'idea di tornare nell'arena. La ribellione – come vedremo - serpeggia a tutti i livelli e porta i giocatori ad allearsi per sopravvivere e, soprattutto, per battere il vero nemico.
Nonostante il cambio di regia (Gary Ross qui è solo co-sceneggiatore), il film resta visivamente simile al precedente, ma il côte fantascientifico appare un po' più curato. C'è qualche piccolo ritocco nelle divise dei terribili Pacificatori (che bel nome orwelliano!), diventate decisamente anni Settanta, nell'architettura della capitale, che ora risulta un po' più verticale, e nei simulatori virtuali dei combattimenti. La fotografia ripropone i toni freddi e slavati nel Distretto 12, quelli più saturi nella capitale e nella lussureggiante area di gioco in stile Lost. Sempre strabilianti e fuori luogo le mise della svaporata Effie Trinket e i cangianti abiti da cerimonia della nostra eroina.
Le sequenze nell'arena, piena di trappole mortali (a dire il vero sempre più esagerate e improbabili), mantengono alta la tensione nell'ultima parte del film con una certa facilità, fino al pirotecnico colpo di scena finale, quando il teatro della finzione messo su per rincoglionire le masse, crolla letteralmente grazie all'indomabile Katniss.
Nel mettere in scena i giochi, il film gioca al rialzo rispetto al precedente, ma la parte più interessante è quella che li precede, con il suo lento accumulo di violenza, soprusi, ingiustizia e rabbia. E alla fine il percorso di consapevolezza di sé della nostra eroina è compiuto, come ci mostra l'ultimo primissimo piano sui suoi occhi fiammeggianti.
La ragazza di fuoco è puro intrattenimento, ben confezionato e ottimamente venduto. La cosa che stupisce di più è la capacità di trasformare delle tematiche che negli anni Settanta avrebbe prodotto un dignitoso film di fantascienza sociale, in un clamoroso franchising dagli incassi stratosferici. Segno dei tempi.
Hunger Games: La ragazza di fuoco (The Hunger Games: Catching Fire, USA 2013)
Un film di Francis Lawrence.
Con Jennifer Lawrence, Josh Hutcherson, Liam Hemsworth, Woody Harrelson, Elizabeth Banks, Lenny Kravitz, Philip Seymour Hoffman, Jeffrey Wright, Stanley Tucci, Donald Sutherland.
Durata 146 min.
venerdì 8 novembre 2013
Vite da osteria
Paolo Bressan è un uomo solo, pieno di livore, alcolista, bugiardo ed ex-marito infedele, che passa il suo tempo libero a ubriacarsi nelle private del goriziano. Un giorno si trova a dover accudire un giovane nipote sloveno che sembra avere un unico grande talento: fare sempre centro al gioco delle freccette. L'uomo cercherà egoisticamente di sfruttare a suo favore tale capacità, ma questo inaspettato incontro finirà per cambiargli la vita per sempre.
Il regista goriziano Matteo Oleotto firma una commedia dolceamara, crepuscolare, ambientandola in un territorio poco frequentato dal cinema. Girata tra Gorizia e la Slovenia, a dire il vero non sfrutta appieno le inedite locations che il territorio offre, ma le usa come perfetto sfondo di una storia dai toni dimessi. Giuseppe Battiston giganteggia su tutti, con un personaggio tanto sgradevole e cattivo quanto tristemente solo e autolesionista e alla fine conquista l'empatia dello spettatore regalandogli un'interpretazione superlativa.
L'altro protagonista del film – nel bene e nel male – è il vino, presente nella cultura delle private, nei vigneti, nei monologhi alcolici e nei canti d'osteria del coro di Doberdò.
Il film è ottimamente fotografato, con accenni caravaggeschi (si veda la raffinata scena iniziale), gli interni scuri appena illuminati da luci giallastre e la selvatica e desolata natura d'oltreconfine, filmata con maestosi grandangoli. La pellicola si avvale di un efficace cast italo-sloveno, con un ottimo giovane attore nel ruolo dello scemo Zoran (Rok Prašnikar), che si esprime in un buffo e anacronistico italiano letterario.
Zoran, il mio nipote scemo si presenta alla ribalta italiana come una piccola commedia dal sapore nuovo e diverso, aspro come il vino di queste terre, ma dolcemente malinconica come una sera di nebbia sul Lungo Isonzo.
Imperdibile per i fan dell'immenso Battiston.
Zoran, il mio nipote scemo (Italia / Slovenia, 2013)
Un film di Matteo Oleotto.
Con Giuseppe Battiston, Teco Celio, Rok Prašnikar, Marjuta Slamič, Roberto Citran.
Durata 103 min.
Il regista goriziano Matteo Oleotto firma una commedia dolceamara, crepuscolare, ambientandola in un territorio poco frequentato dal cinema. Girata tra Gorizia e la Slovenia, a dire il vero non sfrutta appieno le inedite locations che il territorio offre, ma le usa come perfetto sfondo di una storia dai toni dimessi. Giuseppe Battiston giganteggia su tutti, con un personaggio tanto sgradevole e cattivo quanto tristemente solo e autolesionista e alla fine conquista l'empatia dello spettatore regalandogli un'interpretazione superlativa.
L'altro protagonista del film – nel bene e nel male – è il vino, presente nella cultura delle private, nei vigneti, nei monologhi alcolici e nei canti d'osteria del coro di Doberdò.
Il film è ottimamente fotografato, con accenni caravaggeschi (si veda la raffinata scena iniziale), gli interni scuri appena illuminati da luci giallastre e la selvatica e desolata natura d'oltreconfine, filmata con maestosi grandangoli. La pellicola si avvale di un efficace cast italo-sloveno, con un ottimo giovane attore nel ruolo dello scemo Zoran (Rok Prašnikar), che si esprime in un buffo e anacronistico italiano letterario.
Zoran, il mio nipote scemo si presenta alla ribalta italiana come una piccola commedia dal sapore nuovo e diverso, aspro come il vino di queste terre, ma dolcemente malinconica come una sera di nebbia sul Lungo Isonzo.
Imperdibile per i fan dell'immenso Battiston.
Zoran, il mio nipote scemo (Italia / Slovenia, 2013)
Un film di Matteo Oleotto.
Con Giuseppe Battiston, Teco Celio, Rok Prašnikar, Marjuta Slamič, Roberto Citran.
Durata 103 min.
domenica 6 ottobre 2013
Persi nello spazio
Una scienziata alla sua prima missione e un astronauta veterano finiscono dispersi nello spazio a causa di un incidente. Lotteranno contro il tempo per trovare un modo per ritornare sulla Terra. Difficile dire di più senza fare degli spoiler. Vediamo se ci riesco…
Gravity è uno strano oggetto filmico, un ibrido tra un piccolo film d'autore e la mega-produzione hollywoodiana. Cast ed effetti stellari a prima vista fanno pendere la bilancia su quest'ultimo aspetto del film. Ma l'essenzialità della trama, la scarsità di personaggi (due), il suo carattere altamente "umanistico", i tempi lunghi e il controllo pressoché totale sul film di Alfonso Cuarón (regia, sceneggiatura, produzione, montaggio), mi suggeriscono che si tratti di un film molto particolare, personale, quasi autoriale, appunto.
La messa in scena è straordinariamente realistica e verosimile, spettacolare soprattutto per l'ambientazione estrema, che è parte integrante della pellicola. Il film ci porta in luoghi lontani dalla nostra quotidiana esperienza, ma esistenti. Satelliti, stazioni spaziali, shuttle e capsule di salvataggio sono là che orbitano sopra le nostre teste. Non sono le navicelle ordinate, asettiche e iper-tecnologiche a cui film di fantascienza ci hanno abituato. Sembrano più dei fragilissimi barattoli di latta, disordinati e poco glamour. Perché Gravity non è un film di fantascienza, è semplicemente un film ambientato nel cosmo, che immagina un naufragio spaziale, con due dispersi che cercano una scialuppa di salvataggio a gravità zero.
L'autore riesce a mantenere viva la tensione per tutto il tempo, realizzando un film coinvolgente – non solo per un ineccepibile 3D – grazie all'interpretazione perfetta di una sorprendente Sandra Bullock, sottoposta ad un vero tour de force fisico (deve simulare per tutto il film l'assenza di gravità). Il suo personaggio si trova a lottare per sopravvivere, ma prima dovrà ritrovare la voglia di vivere, per vincere le avversità e sperare di tornare a casa.
Gravity è un film visivamente stupendo, che mescola la sapientemente grandiosità dell'ambientazione con le intime pene di una donna sola, che cerca di superare un terribile lutto e di riconciliarsi con il mondo, quello stesso mondo che scorre silenzioso e maestoso sotto/sopra di lei. Un film intelligente e spettacolare, come è raro trovare di questi tempi. Da gustare rigorosamente al cinema.
Gravity (USA / Gran Bretagna, 2013)
Un film di Alfonso Cuarón.
Con Sandra Bullock, George Clooney, Ed Harris, Orto Ignatiussen, Phaldut Sharma.
Durata 92 min.
Gravity è uno strano oggetto filmico, un ibrido tra un piccolo film d'autore e la mega-produzione hollywoodiana. Cast ed effetti stellari a prima vista fanno pendere la bilancia su quest'ultimo aspetto del film. Ma l'essenzialità della trama, la scarsità di personaggi (due), il suo carattere altamente "umanistico", i tempi lunghi e il controllo pressoché totale sul film di Alfonso Cuarón (regia, sceneggiatura, produzione, montaggio), mi suggeriscono che si tratti di un film molto particolare, personale, quasi autoriale, appunto.
La messa in scena è straordinariamente realistica e verosimile, spettacolare soprattutto per l'ambientazione estrema, che è parte integrante della pellicola. Il film ci porta in luoghi lontani dalla nostra quotidiana esperienza, ma esistenti. Satelliti, stazioni spaziali, shuttle e capsule di salvataggio sono là che orbitano sopra le nostre teste. Non sono le navicelle ordinate, asettiche e iper-tecnologiche a cui film di fantascienza ci hanno abituato. Sembrano più dei fragilissimi barattoli di latta, disordinati e poco glamour. Perché Gravity non è un film di fantascienza, è semplicemente un film ambientato nel cosmo, che immagina un naufragio spaziale, con due dispersi che cercano una scialuppa di salvataggio a gravità zero.
L'autore riesce a mantenere viva la tensione per tutto il tempo, realizzando un film coinvolgente – non solo per un ineccepibile 3D – grazie all'interpretazione perfetta di una sorprendente Sandra Bullock, sottoposta ad un vero tour de force fisico (deve simulare per tutto il film l'assenza di gravità). Il suo personaggio si trova a lottare per sopravvivere, ma prima dovrà ritrovare la voglia di vivere, per vincere le avversità e sperare di tornare a casa.
Gravity è un film visivamente stupendo, che mescola la sapientemente grandiosità dell'ambientazione con le intime pene di una donna sola, che cerca di superare un terribile lutto e di riconciliarsi con il mondo, quello stesso mondo che scorre silenzioso e maestoso sotto/sopra di lei. Un film intelligente e spettacolare, come è raro trovare di questi tempi. Da gustare rigorosamente al cinema.
Gravity (USA / Gran Bretagna, 2013)
Un film di Alfonso Cuarón.
Con Sandra Bullock, George Clooney, Ed Harris, Orto Ignatiussen, Phaldut Sharma.
Durata 92 min.
martedì 1 ottobre 2013
Il circuito della vita
Rush racconta l'epica sfida tra Lauda e Hunt sui circuiti della Formula 1 nella seconda metà degli anni Settanta, uno scontro tra due stili di vita e di guida. Doppia biografia intrecciata dei due piloti, le cui vite avranno esiti molto diversi.
Il film di Ron Howard, sostenuto dall'ottima e solida sceneggiatura di Peter Morgan (quello di Frost/Nixon e The Queen), non è solo un omaggio ad uno degli sport più cinematografici che si possano immaginare, ma anche la cronaca appassionata di uno scontro tra due campioni dai caratteri diametralmente opposti. Hunt è un simpatico sbruffone, bello e fascinoso, spericolato nella vita e in pista, vive alla giornata, gareggia sfidando la morte e vuole godersi fino in fondo tutti i frutti che la fama e la ricchezza gli porta. Lauda è arrogante e antipatico, un freddo calcolatore, ma determinato e competente, dalla vita seria e (quasi) noiosa. Entrambi pecore nere di famiglie ricche, hanno due stili di vita speculari e due modi opposti di intendere lo sport, ma in fondo sono due campioni che si ammirano e si rispettano a vicenda.
Il film racconta la loro rivalità dalle prime prove in Formula 3 sino al drammatico campionato del 1976, durante il quale duelleranno fino alla fine. Quella stagione viene ricordata anche per il terribile incidente a Lauda e dalla sua incredibile "resurrezione", che il regista mette in scena in modo crudo e realistico, mostrandoci di che pasta è fatto quell'austriaco testardo.
La messa in scena impeccabile ci porta in un'epoca lontana, dove i piloti rischiavano veramente la vita ad ogni corsa, ci trascina nell'abitacolo delle monoposto, con riprese impossibili a quei tempi, e con un coinvolgimento tale che pare di sentire l'odore di benzina.
Quel bisteccone di Chris Hemsworth dà corpo – e che corpo, le signore ringraziano per la generosità con cui lo espone – ad un credibile Hunt, mostrando doti attoriali che superano il menar il martello di Thor, mentre il bravo è Daniel Brüh, con muso da topo e volto perennemente imbronciato, è un Lauda simpaticamente sgradevole e geniale.
Rush, nella miglior tradizione di Howard, è un film non particolarmente innovativo, ma è appassionante, ben girato e molto divertente. Piacerà a tutti, anche a chi non importa un fico secco della F1, perché parla di come gli uomini possono affrontare la vita e la morte.
Rush (USA, Gran Bretagna, Germania 2013)
Un film di Ron Howard.
Con Chris Hemsworth, Daniel Brühl, Olivia Wilde, Alexandra Maria Lara, Pierfrancesco Favino.
Durata 123 min.
Il film di Ron Howard, sostenuto dall'ottima e solida sceneggiatura di Peter Morgan (quello di Frost/Nixon e The Queen), non è solo un omaggio ad uno degli sport più cinematografici che si possano immaginare, ma anche la cronaca appassionata di uno scontro tra due campioni dai caratteri diametralmente opposti. Hunt è un simpatico sbruffone, bello e fascinoso, spericolato nella vita e in pista, vive alla giornata, gareggia sfidando la morte e vuole godersi fino in fondo tutti i frutti che la fama e la ricchezza gli porta. Lauda è arrogante e antipatico, un freddo calcolatore, ma determinato e competente, dalla vita seria e (quasi) noiosa. Entrambi pecore nere di famiglie ricche, hanno due stili di vita speculari e due modi opposti di intendere lo sport, ma in fondo sono due campioni che si ammirano e si rispettano a vicenda.
Il film racconta la loro rivalità dalle prime prove in Formula 3 sino al drammatico campionato del 1976, durante il quale duelleranno fino alla fine. Quella stagione viene ricordata anche per il terribile incidente a Lauda e dalla sua incredibile "resurrezione", che il regista mette in scena in modo crudo e realistico, mostrandoci di che pasta è fatto quell'austriaco testardo.
La messa in scena impeccabile ci porta in un'epoca lontana, dove i piloti rischiavano veramente la vita ad ogni corsa, ci trascina nell'abitacolo delle monoposto, con riprese impossibili a quei tempi, e con un coinvolgimento tale che pare di sentire l'odore di benzina.
Quel bisteccone di Chris Hemsworth dà corpo – e che corpo, le signore ringraziano per la generosità con cui lo espone – ad un credibile Hunt, mostrando doti attoriali che superano il menar il martello di Thor, mentre il bravo è Daniel Brüh, con muso da topo e volto perennemente imbronciato, è un Lauda simpaticamente sgradevole e geniale.
Rush, nella miglior tradizione di Howard, è un film non particolarmente innovativo, ma è appassionante, ben girato e molto divertente. Piacerà a tutti, anche a chi non importa un fico secco della F1, perché parla di come gli uomini possono affrontare la vita e la morte.
Rush (USA, Gran Bretagna, Germania 2013)
Un film di Ron Howard.
Con Chris Hemsworth, Daniel Brühl, Olivia Wilde, Alexandra Maria Lara, Pierfrancesco Favino.
Durata 123 min.
giovedì 11 luglio 2013
Pazzo vecchio West
Un avvocato non-violento e imbranato ritorna al suo paese natale nel selvaggio West, ormai raggiunto dal progresso e dalla ferrovia, che ha portato con sé anche avidità e violenza. Dopo l'assassinio del fratello ranger, diventerà un giustiziere mascherato, grazie all'aiuto di un indiano matto ma pieno di risorse.
Il trio dei Pirati (Depp, Verbinski e Bruckheimer) colpisce ancora, con questa versione survoltata del mitico personaggio western creato negli anni Trenta. Dopo l'eccentrico film d'animazione Rango, Verbinsky torna nel West con personaggi in carne e ossa che si lanciano in spericolate acrobazie come fossero dei cartoni animati. Il film è un riuscito mix di comicità e azione, supportato dalla classica coppia mal assortita che genera gag a ripetizione. Armie Hammer ripropone il ruolo dell'eroe tontolone (come il principe di Biancaneve), mentre Depp si maschera da indiano schizzato, aggiungendo un nuovo personaggio esagerato alla sua nutrita collezione, ed è uno dei migliori – direi – dopo quello di Jack Sparrow. Il suo Tonto dalle movenze chapliniane, intento a nutrire il suo corvo morto in testa o a parlare com i cavalli, è il vero protagonista del film. Voce narrante delle avventure di Lone Ranger, tiene insieme la trama del film giustificando le inesattezze e stravaganze con la suo racconto ondivago e inaffidabile.
Verbinski stipa il film di luoghi comuni sul West nonché di alcune stravaganze (le lepri mannare, le ferrovie da lunapark). Racconta le vicende del giustiziere mascherato con molta ironia, senza trasformare però il film in una parodia del western. The Lone Ranger è pieno di gag fisiche e catastrofiche, con protagoniste le locomotive, scene che hanno un forte debito con i film di Buster Keaton, mentre lo score di Hans Zimmer strizza l'occhio a Morricone, soprattutto nell'uso del breve tema al flauto che sottolinea comicamente alcune azioni di Tonto.
Sotto le apparenze di un film leggero per bambini, la sceneggiatura infila temi pesanti come la critica al feroce capitalismo che stermina i nativi e viola la natura. Con una metafora – neanche tanto velata – ci mostra che il liberismo spinto va a braccetto con la criminalità: lo spietato bandito e il costruttore senza scrupoli della ferrovia sono infatti fratelli. Un film dunque che può essere apprezzato anche dal pubblico adulto e che, nonostante la lunghezza, fila via liscio come una locomotiva giù da un ponte.
The Lone Ranger (USA, 2013)
Un film di Gore Verbinski.
Con Armie Hammer, Johnny Depp, Ruth Wilson, Tom Wilkinson, Helena Bonham Carter
Durata 135 min.
Il trio dei Pirati (Depp, Verbinski e Bruckheimer) colpisce ancora, con questa versione survoltata del mitico personaggio western creato negli anni Trenta. Dopo l'eccentrico film d'animazione Rango, Verbinsky torna nel West con personaggi in carne e ossa che si lanciano in spericolate acrobazie come fossero dei cartoni animati. Il film è un riuscito mix di comicità e azione, supportato dalla classica coppia mal assortita che genera gag a ripetizione. Armie Hammer ripropone il ruolo dell'eroe tontolone (come il principe di Biancaneve), mentre Depp si maschera da indiano schizzato, aggiungendo un nuovo personaggio esagerato alla sua nutrita collezione, ed è uno dei migliori – direi – dopo quello di Jack Sparrow. Il suo Tonto dalle movenze chapliniane, intento a nutrire il suo corvo morto in testa o a parlare com i cavalli, è il vero protagonista del film. Voce narrante delle avventure di Lone Ranger, tiene insieme la trama del film giustificando le inesattezze e stravaganze con la suo racconto ondivago e inaffidabile.
Verbinski stipa il film di luoghi comuni sul West nonché di alcune stravaganze (le lepri mannare, le ferrovie da lunapark). Racconta le vicende del giustiziere mascherato con molta ironia, senza trasformare però il film in una parodia del western. The Lone Ranger è pieno di gag fisiche e catastrofiche, con protagoniste le locomotive, scene che hanno un forte debito con i film di Buster Keaton, mentre lo score di Hans Zimmer strizza l'occhio a Morricone, soprattutto nell'uso del breve tema al flauto che sottolinea comicamente alcune azioni di Tonto.
Sotto le apparenze di un film leggero per bambini, la sceneggiatura infila temi pesanti come la critica al feroce capitalismo che stermina i nativi e viola la natura. Con una metafora – neanche tanto velata – ci mostra che il liberismo spinto va a braccetto con la criminalità: lo spietato bandito e il costruttore senza scrupoli della ferrovia sono infatti fratelli. Un film dunque che può essere apprezzato anche dal pubblico adulto e che, nonostante la lunghezza, fila via liscio come una locomotiva giù da un ponte.
The Lone Ranger (USA, 2013)
Un film di Gore Verbinski.
Con Armie Hammer, Johnny Depp, Ruth Wilson, Tom Wilkinson, Helena Bonham Carter
Durata 135 min.
sabato 29 giugno 2013
Palle d'acciaio
Kal-El neonato viene spedito sulla Terra da Russel Crowe prima che Krypton si disintegri. Finirà in Kansas allevato da Kevin Kostner, crescendo come un disadattato a causa dei suoi inusitati poteri. Un viaggio verso i ghiacci del nord gli farà scoprire la sua vera natura e capirà qual è la sua missione. L'arrivo di alcuni kryptoniani criminali lo metterà a dura prova.
Lasciando da parte ogni polemica sul dilagare di remake e reboot a Hollywood (l'ultimo Superman è del 2006), mi concentrerei sull'estetica della meraviglia portata all'eccesso, presente in questo film, ma anche in molte pellicole degli ultimi tempi (vedi l'ultimo Star Trek). Un'estetica possibile e sostenuta dal reparto effetti speciali, che ormai possono tutto. Perciò sono un'arma micidiale in mano a registi dal polso debole o dal dubbio talento. Sulla carta L'uomo d'acciaio era un progetto interessante: soggetto e sceneggiatura dei creatori della più recente saga di Batman (Goyer e Nolan), con una riscrittura più attuale e adulta di Superman (nome che viene pronunciato solo una volta in tutto il film), un regista dalla produzione altalenante ma con qualche film interessante al suo attivo. Il risultato è piuttosto deludente. Il film inizia con un lungo prologo su Krypton, con un'ambientazione un po' alla Avatar e un po' retrò (astronavi organiche, visori in 3D metallico, bestie volanti, costumi medioevali) per continuare sulla Terra con il viaggio di Clark Kent per scoprire se stesso. Questa parte del film è quella migliore, costruita con flashback sulla difficile infanzia a Smallville, dove il protagonista fa i conti con la sua diversità, si confronta con gli amorevoli genitori adottivi e incontra la giornalista Lois Lane. Poi arrivano i cattivi, capitanati da un ossessivo e spiritato Michael Shannon, e il film diventa un'interminabile, noiosa sequela di scontri e distruzioni catastrofiche, senza un minimo di spirito epico o senso della misura. Un vandalismo digitale ipertrofico e imbarazzante che affossa il film, facendo dimenticare i pochi pregi della riscrittura di questo personaggio, come la rilettura cristiana della sua venuta sulla Terra, il rapporto con i due padri e il cammino che egli intraprende per la salvezza del mondo. Occasione sprecata.
L'uomo d'acciaio (Man of Steel, USA/Canada/Gran Bretagna, 2013)
Un film di Zack Snyder.
Con Henry Cavill, Amy Adams, Michael Shannon, Kevin Costner, Diane Lane, Russel Crowe
Durata 143 min.
Lasciando da parte ogni polemica sul dilagare di remake e reboot a Hollywood (l'ultimo Superman è del 2006), mi concentrerei sull'estetica della meraviglia portata all'eccesso, presente in questo film, ma anche in molte pellicole degli ultimi tempi (vedi l'ultimo Star Trek). Un'estetica possibile e sostenuta dal reparto effetti speciali, che ormai possono tutto. Perciò sono un'arma micidiale in mano a registi dal polso debole o dal dubbio talento. Sulla carta L'uomo d'acciaio era un progetto interessante: soggetto e sceneggiatura dei creatori della più recente saga di Batman (Goyer e Nolan), con una riscrittura più attuale e adulta di Superman (nome che viene pronunciato solo una volta in tutto il film), un regista dalla produzione altalenante ma con qualche film interessante al suo attivo. Il risultato è piuttosto deludente. Il film inizia con un lungo prologo su Krypton, con un'ambientazione un po' alla Avatar e un po' retrò (astronavi organiche, visori in 3D metallico, bestie volanti, costumi medioevali) per continuare sulla Terra con il viaggio di Clark Kent per scoprire se stesso. Questa parte del film è quella migliore, costruita con flashback sulla difficile infanzia a Smallville, dove il protagonista fa i conti con la sua diversità, si confronta con gli amorevoli genitori adottivi e incontra la giornalista Lois Lane. Poi arrivano i cattivi, capitanati da un ossessivo e spiritato Michael Shannon, e il film diventa un'interminabile, noiosa sequela di scontri e distruzioni catastrofiche, senza un minimo di spirito epico o senso della misura. Un vandalismo digitale ipertrofico e imbarazzante che affossa il film, facendo dimenticare i pochi pregi della riscrittura di questo personaggio, come la rilettura cristiana della sua venuta sulla Terra, il rapporto con i due padri e il cammino che egli intraprende per la salvezza del mondo. Occasione sprecata.
L'uomo d'acciaio (Man of Steel, USA/Canada/Gran Bretagna, 2013)
Un film di Zack Snyder.
Con Henry Cavill, Amy Adams, Michael Shannon, Kevin Costner, Diane Lane, Russel Crowe
Durata 143 min.
lunedì 24 giugno 2013
Salti nel buio
Dove si può mandare un vulcaniano? Dentro un vulcano, ovviamente. J.J. Abrams e i suoi simpatici sceneggiatori stanno ancora ridendo della trovata… ma questo è solo il prologo.
La flotta stellare è sotto attacco. La minaccia contro cui si trovano a lottare il capitano Kirk e il suo equipaggio è più insidiosa del solito, perché arriva dal lato oscuro dell'animo umano, sempre pronto ad una nuova guerra. Il tema, interessante e fecondo di sviluppi interessanti, viene svolto nel consueto modo esagerato, continuando la linea dettata dal primo episodio. Perciò super cattivi, super effetti e disastri uno via l'altro. Ci vuole ben più che la sospensione dell'incredulità per assistere a questo film, per altro confezionato benissimo e con gran profusione di dollari. Con la regia turbo di Abrams non ci si annoia mai, ma forse un po' meno roba da disintegrare e qualche battuta in più a Spock non guastava. Sto diventando vecchio? Può essere. Però, pur con tutta la sua spettacolarità esagerata, il primo episodio conteneva elementi di trama più interessanti e originali, che qui vengono sacrificati nella interminabile baraonda di scene d'azione ben oltre i confini della verosimiglianza. Dai creatori delle trame cervellotiche di Lost e Fringe mi aspettavo qualche guizzo d'intelligenza in più.
Zachary Quinto è un impeccabile Spock, perfetto quando mantiene la sua comica imperturbabilità, un po' meno quando si arrabbia. Il cattivo di turno è l'ottimo Benedict Cumberbatch, purtroppo usato al di sotto delle sue capacità, mentre il redivivo Peter Weller è l'ambiguo e pericoloso ammiraglio Marcus.
Colpone di scena nel pre-finale ma con soluzione telefonata (anzi teletrasportata). Classico pop-corn a cui si assiste tra il divertito e lo stordito. Astenersi amanti film lenti e contemplativi.
Star Trek Into Darkness (USA, 2012)
Un film di J.J. Abrams.
Con John Cho, Benedict Cumberbatch, Alice Eve, Bruce Greenwood, Simon Pegg, Chris Pine, Zoe Saldana, Zachary Quinto, Karl Urban, Peter Weller, Anton Yelchin.
Durata 132 min.
La flotta stellare è sotto attacco. La minaccia contro cui si trovano a lottare il capitano Kirk e il suo equipaggio è più insidiosa del solito, perché arriva dal lato oscuro dell'animo umano, sempre pronto ad una nuova guerra. Il tema, interessante e fecondo di sviluppi interessanti, viene svolto nel consueto modo esagerato, continuando la linea dettata dal primo episodio. Perciò super cattivi, super effetti e disastri uno via l'altro. Ci vuole ben più che la sospensione dell'incredulità per assistere a questo film, per altro confezionato benissimo e con gran profusione di dollari. Con la regia turbo di Abrams non ci si annoia mai, ma forse un po' meno roba da disintegrare e qualche battuta in più a Spock non guastava. Sto diventando vecchio? Può essere. Però, pur con tutta la sua spettacolarità esagerata, il primo episodio conteneva elementi di trama più interessanti e originali, che qui vengono sacrificati nella interminabile baraonda di scene d'azione ben oltre i confini della verosimiglianza. Dai creatori delle trame cervellotiche di Lost e Fringe mi aspettavo qualche guizzo d'intelligenza in più.
Zachary Quinto è un impeccabile Spock, perfetto quando mantiene la sua comica imperturbabilità, un po' meno quando si arrabbia. Il cattivo di turno è l'ottimo Benedict Cumberbatch, purtroppo usato al di sotto delle sue capacità, mentre il redivivo Peter Weller è l'ambiguo e pericoloso ammiraglio Marcus.
Colpone di scena nel pre-finale ma con soluzione telefonata (anzi teletrasportata). Classico pop-corn a cui si assiste tra il divertito e lo stordito. Astenersi amanti film lenti e contemplativi.
Star Trek Into Darkness (USA, 2012)
Un film di J.J. Abrams.
Con John Cho, Benedict Cumberbatch, Alice Eve, Bruce Greenwood, Simon Pegg, Chris Pine, Zoe Saldana, Zachary Quinto, Karl Urban, Peter Weller, Anton Yelchin.
Durata 132 min.
mercoledì 5 giugno 2013
Il grande nulla
Jep Gambardella (Toni Servillo), autore di un unico romanzo in gioventù, divenuto giornalista e re della mondanità romana, spende la sua vita tra party caciaroni, happening artistici, funerali e matrimoni, attraversando come un sonnambulo una Roma di dolente bellezza. Indossando una maschera di amara disillusione, incontra nel suo vagare nani e ballerine, artisti cialtroni e stripteuse attempate, cardinali mondani e sante mummificate, in un girovagare che, come i trenini che ama fare nelle sue feste, non porta da nessuna parte.
La grande bellezza è un film ondivago, come il suo protagonista, e senza una vera trama, un elemento che interessa poco al regista (e che era già stato in gran parte sacrificato nel precedente This must be the place). Unico filo che lega episodi e personaggi è lo sguardo del protagonista e il suo monologo interiore. Ne esce un film affastellato di roba, roba di buona qualità, ma che nell'insieme sembra ammassata un po' a caso, anche se così non è. Nel film ci sono spunti e idee per una decina di film, personaggi appena abbozzati che meriterebbero una pellicola tutta per loro (ad esempio Ramona, egregiamente interpretata da Sabrina Ferilli), brillanti grezzi che intravediamo in una miniera senza fine, dove viaggiamo su un trenino senza freni. Il film è un ritratto – forse un po' troppo estetizzante – dell'Italia in putrefazione di oggi, almeno di certa Italia, quella che balla mentre la nave affonda. Non è un caso che in una scena appaia il relitto della Costa Concordia, elegantemente reclinata nell'azzurro del mare, bella ma morta.
La grande bellezza è un film sul nulla e forse per questo sembra così inconsistente (è indicativo di un intento progettuale del regista che il protagonista ricordi come Flaubert progettasse un romanzo sul nulla). Ma a ben vedere mena fendenti a destra e a manca. Ce n'è per tutti: artisti velleitari, finti intellettuali che "grondano impegno sociale", cardinali senza fede ma con molte ricette, dive della tv sfatte, nobili a noleggio. Grande assente solo il mondo della politica, ma c'è tutta la società che ha creato e sostenuto quel mondo.
Un film dunque solo apparentemente irrisolto, che invece è ricco di spunti di riflessione, di personaggi affascinanti e facce giuste, girato con il consueto virtuosismo in una Roma di abbagliante bellezza, pieno di momenti di poesia senza essere stucchevole, spruzzato di surrealismo senza diventare felliniano (l'ombra de La dolce vita aleggia lieve). Un film da guardare con gli occhi bene aperti.
La grande bellezza (Italia / Francia, 2013)
Un film di Paolo Sorrentino.
Con Toni Servillo, Carlo Verdone, Carlo Buccirosso, Sabrina Ferilli, Pamela Villoresi.
Durata 150 min.
domenica 19 maggio 2013
Gatsby l'esagerato
Nick Carraway, giovane aspirante scrittore giunto a New York nel 1922 e finito a lavorare nella finanza, ci racconta la storia di Gatsby, misterioso e ricchissimo personaggio, suo vicino di casa. Nick aiuterà Gatsby a incontrare Daisy, il primo indimenticato amore, moglie infelice di Tom Buchanan. Chi ha letto il libro di Scott Fitzgerald sa come va a finire.
Baz Luhrmann rilegge a modo suo il celebre romanzo, restituendoci una versione all'insegna dell'esagerazione visiva, con movimenti di macchina iperbolici, scenografie straripanti, inquadrature stipate all'inverosimile, colori saturi e colonna sonora che spazia dal sinfonico struggente all'hip pop, frullando elettronica e fox-trot. Dopo mezz'ora ha già esaurito il budget di tre film italiani. Insomma tutto quello che ci si aspetta da un film marchiato Luhrmann. Ma il suo stile è ormai maniera e sembra che lui voglia adattarlo a tutto e forse questa è la colpa più grave del film, che ha irritato più di un critico a Cannes. A parte questo aspetto, il film risulta assolutamente godibile per chi digerisce la cucina speziata del regista australiano.
Sostenuto da un cast perfetto, Il Grande Gatsby coinvolge lo spettatore nelle vicende sentimentali del protagonista, trovando i momenti migliori nelle scene in cui la bravura degli attori emerge sulla trasbordante messa in scena. DiCaprio calza in modo naturale i panni dell'affascinante e complesso personaggio di Gatsby, mentre Carey Mulligan è un'eterea quanto fatua Daisy, perfetta incarnazione dell'allucinazione amorosa di cui il protagonista è vittima.
Più interessato alle feste faraoniche, alla luccicante superficie degli Anni Ruggenti, Luhrmann tralascia i temi più caldi del romanzo, come lo smascheramento dal falso mito del sogno americano, di cui Gatsby è interprete romantico e perdente, la feroce disugualianza sociale in un'epoca di incontrollato sviluppo e di folle corsa verso il baratro della Grande Depressione. Nessun aggancio ai nostri giorni, nessun pensiero troppo profondo, solo una mirabolante sarabanda poco adatta a questa storia.
Il Grande Gatsby (The Great Gatsby, Australia / USA, 2013)
Un film di Baz Luhrmann.
Con Leonardo DiCaprio, Tobey Maguire, Carey Mulligan, Joel Edgerton, Isla Fisher.
Durata 142 min.
Baz Luhrmann rilegge a modo suo il celebre romanzo, restituendoci una versione all'insegna dell'esagerazione visiva, con movimenti di macchina iperbolici, scenografie straripanti, inquadrature stipate all'inverosimile, colori saturi e colonna sonora che spazia dal sinfonico struggente all'hip pop, frullando elettronica e fox-trot. Dopo mezz'ora ha già esaurito il budget di tre film italiani. Insomma tutto quello che ci si aspetta da un film marchiato Luhrmann. Ma il suo stile è ormai maniera e sembra che lui voglia adattarlo a tutto e forse questa è la colpa più grave del film, che ha irritato più di un critico a Cannes. A parte questo aspetto, il film risulta assolutamente godibile per chi digerisce la cucina speziata del regista australiano.
Sostenuto da un cast perfetto, Il Grande Gatsby coinvolge lo spettatore nelle vicende sentimentali del protagonista, trovando i momenti migliori nelle scene in cui la bravura degli attori emerge sulla trasbordante messa in scena. DiCaprio calza in modo naturale i panni dell'affascinante e complesso personaggio di Gatsby, mentre Carey Mulligan è un'eterea quanto fatua Daisy, perfetta incarnazione dell'allucinazione amorosa di cui il protagonista è vittima.
Più interessato alle feste faraoniche, alla luccicante superficie degli Anni Ruggenti, Luhrmann tralascia i temi più caldi del romanzo, come lo smascheramento dal falso mito del sogno americano, di cui Gatsby è interprete romantico e perdente, la feroce disugualianza sociale in un'epoca di incontrollato sviluppo e di folle corsa verso il baratro della Grande Depressione. Nessun aggancio ai nostri giorni, nessun pensiero troppo profondo, solo una mirabolante sarabanda poco adatta a questa storia.
Il Grande Gatsby (The Great Gatsby, Australia / USA, 2013)
Un film di Baz Luhrmann.
Con Leonardo DiCaprio, Tobey Maguire, Carey Mulligan, Joel Edgerton, Isla Fisher.
Durata 142 min.
giovedì 4 aprile 2013
Hitchcock e le bionde
Un Alfred Hitchcock sessantenne decide di mettere in gioco la sua carriera puntando tutto su un progetto che nessuno studio vuole produrre: Psycho. Ispirato agli inquietanti delitti di un serial-killer, il film avrà una gestazione travagliata, ma alla fine diverrà il suo più grande successo commerciale.
Il biopic di Sacha Gervasi, ingannevolmente intitolato Hitchcock, è in gran parte incentrato sulla storia privata del grande regista, con i suoi demoni, il rapporto morboso con le attrici e quello con Alma Reville, moglie e preziosa collaboratrice. La pellicola inizia brillantemente citando i famosi prologhi di Alfred Hitchcock racconta, ma poi ben presto s'incarta con gli inutili e imbarazzanti dialoghi immaginari tra Hitch e il serial-killer che ha ispirato il personaggio di Norman Bates. È questo il trucchetto di sceneggiatura per rendere il carattere weirdo di Hitchcock, ma in realtà ne esce un incrocio tra Hannibal the Cannibal e Dexter. Invece i suoi veri demoni vengono citati solo in un dialogo tra attrici, da cui apprendiamo del gusto ossessivo sulla manipolazione e sul controllo delle bionde protagoniste dei suoi film.
Molto spazio poi viene dato al complesso rapporto con la paziente e comprensiva moglie (una strepitosa Helen Mirren, molto più sexy dell'originale), mentre quasi nulla al genio di Hitchcock. Concentrandosi sul ritratto dell'uomo – pieno di tic, ossessioni e debolezze – il film tralascia completamente di raccontarne l'opera e non prova neanche a spiegare perché Hitchcock è uno dei più grandi registi di tutti i tempi. E per un film che s'intitola Hitchcock è piuttosto grave, come fare un film su Mozart senza musica. Antony Hopkins, sotto chili di trucco, ne tenta una pallida imitazione, che oscilla tra il ritratto sbiadito e la caricatura grottesca (la scena in cui alla prima del film "dirige" le reazioni del pubblico durante la celeberrima sequenza della doccia). Helen Mirren gli ruba spesso la scena e la sceneggiatura suggerisce – non tanto velatamente – che sia lei il vero genio dietro al grande regista. Un vero autogol.
Per quegli strani casi che sempre più spesso capitano a Hollywood, nello stesso anno di Hitchcock, la HBO ha prodotto The Girl, incentrato sulla storia di Tippi Hedren e della sua terribile esperienza con Hitch. Curiosamente il film parte dove il primo termina e racconta la lavorazione de Gli uccelli e di Marnie, entrambi interpretati dalla bionda attrice. Anche questo film parla dell'Hitchcock privato, tratteggiando un personaggio decisamente più sgradevole e inquietante, ma anche più convincente del precedente. Ma qui protagonista del film è Tippi Hedren, la girl del titolo, e non il regista.
È comunque sorprendente come due film, prodotti contemporaneamente, si concentrino entrambi più sulla descrizione delle morbose fantasie del regista che sulla sua opera, dandone alla fine un ritratto impietoso e per niente lusinghiero. Molto più plausibile (anche dal punto di vista della somiglianza fisica) la Alma Reville interpretata dalla grande Imelda Staunton, molto più remissiva e "complice" di quella della Mirren.
Tra i due il secondo è più onesto ed esplicito, raccontando il tormento di un genio impotente, che sublima nei film (e nell'ossessione per le bionde) le sue pulsioni erotiche.
Così, se volete sapere qualcosa di più dell'altro Hitchcock, l'artista, non vi resta che leggere Il cinema secondo Hitchcock di François Truffaut, probabilmente il più bel libro sul cinema di sempre.
Hitchcock (USA, 2012)
Un film di Sacha Gervasi.
Con Anthony Hopkins, Helen Mirren, Scarlett Johansson, James D'Arcy, Jessica
Biel.
Durata 98 min.
The Girl (USA, 2012)
Un film di Julian Jarrold.
Con Sienna Miller, Toby Jones, Imelda Staunton
Durata: 91 min.
Il biopic di Sacha Gervasi, ingannevolmente intitolato Hitchcock, è in gran parte incentrato sulla storia privata del grande regista, con i suoi demoni, il rapporto morboso con le attrici e quello con Alma Reville, moglie e preziosa collaboratrice. La pellicola inizia brillantemente citando i famosi prologhi di Alfred Hitchcock racconta, ma poi ben presto s'incarta con gli inutili e imbarazzanti dialoghi immaginari tra Hitch e il serial-killer che ha ispirato il personaggio di Norman Bates. È questo il trucchetto di sceneggiatura per rendere il carattere weirdo di Hitchcock, ma in realtà ne esce un incrocio tra Hannibal the Cannibal e Dexter. Invece i suoi veri demoni vengono citati solo in un dialogo tra attrici, da cui apprendiamo del gusto ossessivo sulla manipolazione e sul controllo delle bionde protagoniste dei suoi film.
Molto spazio poi viene dato al complesso rapporto con la paziente e comprensiva moglie (una strepitosa Helen Mirren, molto più sexy dell'originale), mentre quasi nulla al genio di Hitchcock. Concentrandosi sul ritratto dell'uomo – pieno di tic, ossessioni e debolezze – il film tralascia completamente di raccontarne l'opera e non prova neanche a spiegare perché Hitchcock è uno dei più grandi registi di tutti i tempi. E per un film che s'intitola Hitchcock è piuttosto grave, come fare un film su Mozart senza musica. Antony Hopkins, sotto chili di trucco, ne tenta una pallida imitazione, che oscilla tra il ritratto sbiadito e la caricatura grottesca (la scena in cui alla prima del film "dirige" le reazioni del pubblico durante la celeberrima sequenza della doccia). Helen Mirren gli ruba spesso la scena e la sceneggiatura suggerisce – non tanto velatamente – che sia lei il vero genio dietro al grande regista. Un vero autogol.
Cast a confronto con gli originali |
Per quegli strani casi che sempre più spesso capitano a Hollywood, nello stesso anno di Hitchcock, la HBO ha prodotto The Girl, incentrato sulla storia di Tippi Hedren e della sua terribile esperienza con Hitch. Curiosamente il film parte dove il primo termina e racconta la lavorazione de Gli uccelli e di Marnie, entrambi interpretati dalla bionda attrice. Anche questo film parla dell'Hitchcock privato, tratteggiando un personaggio decisamente più sgradevole e inquietante, ma anche più convincente del precedente. Ma qui protagonista del film è Tippi Hedren, la girl del titolo, e non il regista.
È comunque sorprendente come due film, prodotti contemporaneamente, si concentrino entrambi più sulla descrizione delle morbose fantasie del regista che sulla sua opera, dandone alla fine un ritratto impietoso e per niente lusinghiero. Molto più plausibile (anche dal punto di vista della somiglianza fisica) la Alma Reville interpretata dalla grande Imelda Staunton, molto più remissiva e "complice" di quella della Mirren.
Tra i due il secondo è più onesto ed esplicito, raccontando il tormento di un genio impotente, che sublima nei film (e nell'ossessione per le bionde) le sue pulsioni erotiche.
Così, se volete sapere qualcosa di più dell'altro Hitchcock, l'artista, non vi resta che leggere Il cinema secondo Hitchcock di François Truffaut, probabilmente il più bel libro sul cinema di sempre.
Hitchcock (USA, 2012)
Un film di Sacha Gervasi.
Con Anthony Hopkins, Helen Mirren, Scarlett Johansson, James D'Arcy, Jessica
Biel.
Durata 98 min.
The Girl (USA, 2012)
Un film di Julian Jarrold.
Con Sienna Miller, Toby Jones, Imelda Staunton
Durata: 91 min.
sabato 23 marzo 2013
L'aereo più gay del mondo
Un guasto al carrello costringe un aereo a girare in tondo sui cieli della Castiglia in attesa di una pista libera per un atterraggio d'emergenza. A bordo s'intrecciano le vicende di vari stravaganti passeggeri e dei ancor più eccentrici membri dell'equipaggio.
Versione spagnola de L'aereo più pazzo del mondo? Magari! Gli amanti passeggeri è un'esile commedia che segna un altro punto nella parabola creativa sempre più discendente di Almodóvar. Personaggi bizzarri con lo spessore della carta velina, dialoghi finto-trasgressivi, caricature gay e trama praticamente inesistente. Il momento clou del film è il balletto gayo degli steward su una vecchia hit delle Pointer Sisters: ecco, immaginatevi il resto. Per tutto il film si ha la sensazione che il regista sia uno sciagurato che tenti disperatamente di imitare Almodóvar, farcendo la pellicola con alcuni degli elementi stilistici (colori pop, momento musical) e tematici (sesso strano, gaytudine) più cari al regista, ma messi alla cazzo di cane (scusate il tecnicismo). Lo sconclusionato e debolissimo La pelle che abito aveva almeno dei pregi visivi, mentre qui la messa in scena risulta ben più povera, se si escludono i colori squillanti e qualche inquadratura sghemba. E il pre-finale con gli spazi aeroportuali metafisicamente deserti, mentre il velivolo (fuori campo) tenta un atterraggio di fortuna, sembra più dettato da un risparmio produttivo che da una scelta artistica. Imbarazzante.
Los amantes pasajeros (Spagna, 2013)
Un film di Pedro Almodóvar.
Con Antonio de la Torre, Hugo Silva, Miguel Angel Silvestre, Laya Martí, Javier Cámara.
Durata 90 min.
Versione spagnola de L'aereo più pazzo del mondo? Magari! Gli amanti passeggeri è un'esile commedia che segna un altro punto nella parabola creativa sempre più discendente di Almodóvar. Personaggi bizzarri con lo spessore della carta velina, dialoghi finto-trasgressivi, caricature gay e trama praticamente inesistente. Il momento clou del film è il balletto gayo degli steward su una vecchia hit delle Pointer Sisters: ecco, immaginatevi il resto. Per tutto il film si ha la sensazione che il regista sia uno sciagurato che tenti disperatamente di imitare Almodóvar, farcendo la pellicola con alcuni degli elementi stilistici (colori pop, momento musical) e tematici (sesso strano, gaytudine) più cari al regista, ma messi alla cazzo di cane (scusate il tecnicismo). Lo sconclusionato e debolissimo La pelle che abito aveva almeno dei pregi visivi, mentre qui la messa in scena risulta ben più povera, se si escludono i colori squillanti e qualche inquadratura sghemba. E il pre-finale con gli spazi aeroportuali metafisicamente deserti, mentre il velivolo (fuori campo) tenta un atterraggio di fortuna, sembra più dettato da un risparmio produttivo che da una scelta artistica. Imbarazzante.
Los amantes pasajeros (Spagna, 2013)
Un film di Pedro Almodóvar.
Con Antonio de la Torre, Hugo Silva, Miguel Angel Silvestre, Laya Martí, Javier Cámara.
Durata 90 min.
venerdì 8 marzo 2013
Zzz...
Oscar Diggs, mago da circo dongiovanni e un po' cialtrone, finisce a causa di un tornado nel magico Regno di Oz, dove, secondo una profezia, dovrà liberare il Paese dalla strega malvagia.
Inutile e noioso prequel del celeberrimo Mago di Oz di Victor Fleming, firmato da un appannato Sam Raimi e interpretato da un cast che si candida come il più grande spreco di talenti degli ultimi anni. A Michelle Williams, Mila Kunis e Rachel Weisz (argh!) toccano i ruoli delle streghe (buone, cattive e così così), Zach Braff dà voce ad un'inquietante scimmia volante, James Franco invece incarna il personaggio del titolo. Purtroppo lui ha il carisma di un comò, ma questo non è il peggior difetto del film. La pellicola comincia – esattamente come Il Mago di Oz – con un lungo prologo in bianco e nero in formato 4:3, dove si presenta il protagonista. Bastavano forse cinque minuti, invece Raimi si dilunga una mezzora buona prima che il protagonista finisca nel Regno di Oz, patria del technicolor in formato panoramico. Un trucchetto innovativo nel 1939, un po' meno nel 2013. Se poi aggiungiamo che in quel prologo Judy Garland cantava "Over the Rainbow"…
Le scenografie di Robert Stromberg (quello di Avatar e Alice nel Paese delle Meraviglie) sono proprio quelle di Avatar e Alice nel Paese delle Meraviglie. La fotografia ultra satura di Peter Deming, che imita il technicolor dell'originale, provoca un senso di indigestione da caramelle. Potrebbe essere tutto molto bello, a prova di daltonico direi (e so di cosa parlo), se non fosse che la già esile storia fa acqua da tutte le parti. Va bene che è una favola, ma un minimo di solidità nella trama e nella costruzione dei personaggi ci vuole, soprattutto se ci si misura con la fiaba americana più popolare e citata della storia del cinema. E non basta a risollevare dal torpore lo spettatore cinefilo, l'omaggio a Edison e al grande potere illusorio (in senso buono) del cinema, che si dimostra più forte della magia cattiva delle streghe. In questo senso, tutto il film è un monumento al cinema come effetto speciale, dimenticando però che l'effetto più importante di tutti è sempre la forza della storia.
Il grande e potente Oz (Oz: The Great and Powerful, USA 2013)
Un film di Sam Raimi.
Con James Franco, Mila Kunis, Rachel Weisz, Michelle Williams, Zach Braff.
Durata 127 min.
Inutile e noioso prequel del celeberrimo Mago di Oz di Victor Fleming, firmato da un appannato Sam Raimi e interpretato da un cast che si candida come il più grande spreco di talenti degli ultimi anni. A Michelle Williams, Mila Kunis e Rachel Weisz (argh!) toccano i ruoli delle streghe (buone, cattive e così così), Zach Braff dà voce ad un'inquietante scimmia volante, James Franco invece incarna il personaggio del titolo. Purtroppo lui ha il carisma di un comò, ma questo non è il peggior difetto del film. La pellicola comincia – esattamente come Il Mago di Oz – con un lungo prologo in bianco e nero in formato 4:3, dove si presenta il protagonista. Bastavano forse cinque minuti, invece Raimi si dilunga una mezzora buona prima che il protagonista finisca nel Regno di Oz, patria del technicolor in formato panoramico. Un trucchetto innovativo nel 1939, un po' meno nel 2013. Se poi aggiungiamo che in quel prologo Judy Garland cantava "Over the Rainbow"…
Le scenografie di Robert Stromberg (quello di Avatar e Alice nel Paese delle Meraviglie) sono proprio quelle di Avatar e Alice nel Paese delle Meraviglie. La fotografia ultra satura di Peter Deming, che imita il technicolor dell'originale, provoca un senso di indigestione da caramelle. Potrebbe essere tutto molto bello, a prova di daltonico direi (e so di cosa parlo), se non fosse che la già esile storia fa acqua da tutte le parti. Va bene che è una favola, ma un minimo di solidità nella trama e nella costruzione dei personaggi ci vuole, soprattutto se ci si misura con la fiaba americana più popolare e citata della storia del cinema. E non basta a risollevare dal torpore lo spettatore cinefilo, l'omaggio a Edison e al grande potere illusorio (in senso buono) del cinema, che si dimostra più forte della magia cattiva delle streghe. In questo senso, tutto il film è un monumento al cinema come effetto speciale, dimenticando però che l'effetto più importante di tutti è sempre la forza della storia.
Il grande e potente Oz (Oz: The Great and Powerful, USA 2013)
Un film di Sam Raimi.
Con James Franco, Mila Kunis, Rachel Weisz, Michelle Williams, Zach Braff.
Durata 127 min.
mercoledì 6 marzo 2013
Innamorati pazzi
Lui, affetto da disturbo bipolare e ossessionato dalla ex-moglie fedifraga, incontra lei, giovane e stramba vedova di un poliziotto. Sarà una relazione complicata, perché solo con un po' di follia si può curare la follia.
Interessante commedia romantica, dai marcati toni drammatici, sostenuta da un quartetto di grandi interpretazioni, che conferma l'abilità di David O. Russel nel dirigere gli attori. I due protagonisti sono dei personaggi disturbati, di quelli che piacciono tanto a Hollywood. Pat (Bradley Cooper), che è appena tornato a vivere con i suoi, dopo un periodo passato in clinica psichiatrica per avere quasi ammazzato l'amante della moglie, rifiuta i psicofarmaci, con imbarazzanti conseguenze sulla vita familiare. Tiffany (Jennifer Lawrence), traumatizzata dalla morte del marito e reduce da una distruttiva ninfomania, sembra l'unica a comprenderlo e s'ingegna ad aiutarlo con un astuto espediente. E con due ruoli come questi, entrambi sono stati nominati subito agli Oscar (insieme ai co-protagonisti De Niro e Weaver), ma solo la giovane e talentuosa Jennifer Lawrence si è portata a casa la statuetta. Bradley Cooper, che sta cercando di smarcarsi dai ruoli leggeri alla Notte da leoni, ci regala una più che convincente interpretazione, tenendo conto che deve tener testa ad un padre come Robert De Niro.
Tra scene madri e scatti di follia, il film scivola verso un finale ovvio, non senza riservarci qualche simpatico colpo di scena. Insomma, una riuscita commedia "adulta" che, pur nella sua parabola obbligata, riesce ad intrattenere lo spettatore con garbo e intelligenza.
Il lato positivo (Silver Linings Playbook, USA 2012)
Un film di David O. Russell.
Con Bradley Cooper, Robert De Niro, Jennifer Lawrence, Jacki Weaver, Chris Tucker.
Durata 117 min.
Interessante commedia romantica, dai marcati toni drammatici, sostenuta da un quartetto di grandi interpretazioni, che conferma l'abilità di David O. Russel nel dirigere gli attori. I due protagonisti sono dei personaggi disturbati, di quelli che piacciono tanto a Hollywood. Pat (Bradley Cooper), che è appena tornato a vivere con i suoi, dopo un periodo passato in clinica psichiatrica per avere quasi ammazzato l'amante della moglie, rifiuta i psicofarmaci, con imbarazzanti conseguenze sulla vita familiare. Tiffany (Jennifer Lawrence), traumatizzata dalla morte del marito e reduce da una distruttiva ninfomania, sembra l'unica a comprenderlo e s'ingegna ad aiutarlo con un astuto espediente. E con due ruoli come questi, entrambi sono stati nominati subito agli Oscar (insieme ai co-protagonisti De Niro e Weaver), ma solo la giovane e talentuosa Jennifer Lawrence si è portata a casa la statuetta. Bradley Cooper, che sta cercando di smarcarsi dai ruoli leggeri alla Notte da leoni, ci regala una più che convincente interpretazione, tenendo conto che deve tener testa ad un padre come Robert De Niro.
Tra scene madri e scatti di follia, il film scivola verso un finale ovvio, non senza riservarci qualche simpatico colpo di scena. Insomma, una riuscita commedia "adulta" che, pur nella sua parabola obbligata, riesce ad intrattenere lo spettatore con garbo e intelligenza.
Il lato positivo (Silver Linings Playbook, USA 2012)
Un film di David O. Russell.
Con Bradley Cooper, Robert De Niro, Jennifer Lawrence, Jacki Weaver, Chris Tucker.
Durata 117 min.
giovedì 28 febbraio 2013
Una fiaba sottosopra
C'erano una volta in una galassia lontana lontana, due mondi che orbitavano abbracciati ad un unico sole. Ognuno aveva la sua forza di gravità e le sue genti, che non potevano passare da un pianeta all'altro, anche se in alcuni punti i due mondi quasi si sfioravano. Un giorno un bambino del mondo di sotto fece amicizia con una bambina di sopra. Crescendo s'innamorarono uno dell'altra, ma l'odio tra i due mondi li divise, finché un giorno l'amore vinse sulla forza di gravità.
Romantica fiaba fantascientifica dal finale scontato, che ha la sua unica forza nello straordinario doppio mondo creato dal visionario regista Solanas. Già regista dello splendido corto L'homme sans tête, qui è al suo secondo lungometraggio.
L'idea surreale di due mondi capovolti uno sull'altro è visivamente intrigante, ma forse è più adatta a uno dei miei quadri che a un film. La meraviglia dura per un po', ma poi si arriva all'effetto tramonto: è bello perché dura poco, altrimenti ti romperesti le balle. Ecco, qui il tramonto dura per tutto il film, letteralmente. Infatti il sole è sempre basso sull'orizzonte (in cielo c'è sempre un mondo capovolto che incombe) e tutto è immerso in un'incantevole luce dorata neanche fossimo ne I giorni del cielo di Terrence Malick. Insomma, passata la meraviglia iniziale, ci vorrebbe uno straccio di trama originale, oppure, più coraggiosamente, nessuna trama, visioni oniriche, associazioni d'immagini, surrealismo sfrenato. Invece il film si dipana in una banalissima romantica storia d'amore impossibile che alla fine diventa – per magia – possibile. Per non parlare della non originalissima caratterizzazione socio-economica dei due mondi, metafora del nord ricco e capitalista che sfrutta il sud povero e straccione. Insomma, sembra palese che il regista si sia innamorato di questa sua (unica) idea, declinandola in tutte le varianti possibili (alcune molto riuscite e suggestive), trascurando però di rendere più accattivante la trama.
Upside Down resta solo uno spettacolo per gli occhi, con una riuscita ambientazione retrò, una fotografia curata e delle sequenze affascinanti come l'immenso ufficio speculare o la sala da ballo del Café des Dos Mundos. Un film adatto a cuori semplici, spettatori non troppo esigenti e surrealisti in pensione.
Upside Down (Canada, 2013)
Un film di Juan Diego Solanas.
Con Jim Sturgess, Kirsten Dunst, Timothy Spall, Blu Mankuma, Nicholas Rose.
Durata 107 min.
Per rifarsi, consiglio la visione del corto qui sotto.
L'homme sans tête (Francia, Argentina, 2003) di Juan Diego Solanas
Romantica fiaba fantascientifica dal finale scontato, che ha la sua unica forza nello straordinario doppio mondo creato dal visionario regista Solanas. Già regista dello splendido corto L'homme sans tête, qui è al suo secondo lungometraggio.
L'idea surreale di due mondi capovolti uno sull'altro è visivamente intrigante, ma forse è più adatta a uno dei miei quadri che a un film. La meraviglia dura per un po', ma poi si arriva all'effetto tramonto: è bello perché dura poco, altrimenti ti romperesti le balle. Ecco, qui il tramonto dura per tutto il film, letteralmente. Infatti il sole è sempre basso sull'orizzonte (in cielo c'è sempre un mondo capovolto che incombe) e tutto è immerso in un'incantevole luce dorata neanche fossimo ne I giorni del cielo di Terrence Malick. Insomma, passata la meraviglia iniziale, ci vorrebbe uno straccio di trama originale, oppure, più coraggiosamente, nessuna trama, visioni oniriche, associazioni d'immagini, surrealismo sfrenato. Invece il film si dipana in una banalissima romantica storia d'amore impossibile che alla fine diventa – per magia – possibile. Per non parlare della non originalissima caratterizzazione socio-economica dei due mondi, metafora del nord ricco e capitalista che sfrutta il sud povero e straccione. Insomma, sembra palese che il regista si sia innamorato di questa sua (unica) idea, declinandola in tutte le varianti possibili (alcune molto riuscite e suggestive), trascurando però di rendere più accattivante la trama.
Upside Down resta solo uno spettacolo per gli occhi, con una riuscita ambientazione retrò, una fotografia curata e delle sequenze affascinanti come l'immenso ufficio speculare o la sala da ballo del Café des Dos Mundos. Un film adatto a cuori semplici, spettatori non troppo esigenti e surrealisti in pensione.
Upside Down (Canada, 2013)
Un film di Juan Diego Solanas.
Con Jim Sturgess, Kirsten Dunst, Timothy Spall, Blu Mankuma, Nicholas Rose.
Durata 107 min.
Per rifarsi, consiglio la visione del corto qui sotto.
L'homme sans tête (Francia, Argentina, 2003) di Juan Diego Solanas
mercoledì 6 febbraio 2013
Caccia a Osama
Kathryn Bigelow torna ad affrontare il tema delle guerre americane contemporanee (dopo l'ottimo The Hurt Locker) scegliendo ancora una volta un punto di vista originale. In Zero Dark Thirty racconta la caccia a Bin Laden da parte della CIA, seguendo le indagini di Maya, un'agente giovane e determinata, che vota dieci anni della sua vita nel tentativo di catturare il famigerato capo di Al Qaeda. Sappiamo come è andata a finire, più o meno…
Ne esce un film dal taglio più giornalistico e realistico del precedente. Un film meno pervaso dallo stile muscolare della Bigelow, ma sottilmente intelligente nel mettere in fila i fatti senza diventare mai didascalico. Non nasconde ipocritamente le cose orrende fatte dagli agenti americani per raggiungere dei risultati nella lotta al terrorismo. Anzi, sbatte subito in faccia agli spettatori una disturbante sequenza di tortura, facendola precedere dal buio cupo in cui s'intrecciano le vere voci delle vittime dell'11 settembre. È un accostamento un po' malizioso, ma di certo non avvalla l'uso della tortura, come ha sostenuto qualche critico distratto in America.
La regista regala il primo ruolo veramente importante all'ottima Jessica Chastain (già premiata per questo ruolo con un Golden Globe e candidata agli Oscar), che dà corpo e passione ad una donna abile e tenace, di cui sappiamo poco o nulla al di fuori del lavoro. Nonostante ciò, la sua bravura nel far intuire il non detto, dà spessore ad un personaggio che altrimenti rischierebbe di essere piatto e solo funzionale alla narrazione. E la Bigelow sembra voler sottolineare l'approccio femminile al lavoro d'intelligence, che si avvale di giochi d'astuzia e di un'incrollabile costanza, invece che dell'uso della forza bruta, un approccio che alla fine risulta vincente.
Il film si conclude con la lunga sequenza della cattura di Bin Laden, che – astutamente – non viene mai mostrato (se non di sfuggita) e lascia più dubbi che certezze nello spettatore, chiudendo con un significativo primo piano di Maya in lacrime, mentre torna a casa in perfetta solitudine.
Zero Dark Thirty (USA, 2012)
Un film di Kathryn Bigelow.
Con Jessica Chastain, Jason Clarke, Joel Edgerton, Jennifer Ehle, Mark Strong.
Durata 157 min.
Ne esce un film dal taglio più giornalistico e realistico del precedente. Un film meno pervaso dallo stile muscolare della Bigelow, ma sottilmente intelligente nel mettere in fila i fatti senza diventare mai didascalico. Non nasconde ipocritamente le cose orrende fatte dagli agenti americani per raggiungere dei risultati nella lotta al terrorismo. Anzi, sbatte subito in faccia agli spettatori una disturbante sequenza di tortura, facendola precedere dal buio cupo in cui s'intrecciano le vere voci delle vittime dell'11 settembre. È un accostamento un po' malizioso, ma di certo non avvalla l'uso della tortura, come ha sostenuto qualche critico distratto in America.
La regista regala il primo ruolo veramente importante all'ottima Jessica Chastain (già premiata per questo ruolo con un Golden Globe e candidata agli Oscar), che dà corpo e passione ad una donna abile e tenace, di cui sappiamo poco o nulla al di fuori del lavoro. Nonostante ciò, la sua bravura nel far intuire il non detto, dà spessore ad un personaggio che altrimenti rischierebbe di essere piatto e solo funzionale alla narrazione. E la Bigelow sembra voler sottolineare l'approccio femminile al lavoro d'intelligence, che si avvale di giochi d'astuzia e di un'incrollabile costanza, invece che dell'uso della forza bruta, un approccio che alla fine risulta vincente.
Il film si conclude con la lunga sequenza della cattura di Bin Laden, che – astutamente – non viene mai mostrato (se non di sfuggita) e lascia più dubbi che certezze nello spettatore, chiudendo con un significativo primo piano di Maya in lacrime, mentre torna a casa in perfetta solitudine.
Zero Dark Thirty (USA, 2012)
Un film di Kathryn Bigelow.
Con Jessica Chastain, Jason Clarke, Joel Edgerton, Jennifer Ehle, Mark Strong.
Durata 157 min.
sabato 2 febbraio 2013
Anche i reietti cantano
La spettacolare e ricca versione cinematografica dell'omonimo musical è un evento imperdibile per chi ama il genere, un film intenso ed emozionante, che non delude le aspettative. Del monumentale romanzo di Hugo, ambientato nella Francia turbolenta della Restaurazione, il musical tiene i personaggi principali e le vicende più commoventi e drammatiche, rendendo la narrazione ancora più intensa.
Il regista Tom Hooper (premio Oscar per Il discorso del re) alterna sapientemente mirabolanti sequenze da kolossal d'altri tempi a momenti intimi con piani ravvicinati sui protagonisti, frenetiche riprese con macchina a mano a scene quasi statiche. L'idea di non quasi usare mai il playback per il canto dona un'efficace intensità alle interpretazioni: una su tutte, la straordinaria performance attoriale e canora di Anne Hathaway (Fantine) che tocca il suo apice con la struggente "I Dreamed a Dream".
Di alto livello tutte le interpretazioni. Hugh Jackman (Jean Valjean) affronta con impeccabili risultati un tour de force fisico e canoro, mentre gli intermezzi comici della coppia Sacha Baron Cohen e Helena Bonham Carter (i terribili coniugi Thénardier) sono godibili e perfettamente coreografati. Lascia il segno Samantha Barks, con la sua intensa "On My Own", mentre a Russel Crowe – vocalmente il più opaco del cast – tocca l'ingrato compito di dar vita all'antipatico, e un po' stolido, sbirro Javert.
Nonostante i toni da melodramma, il regista ha scelto un registro realistico per scene e costumi, tanto che in certi momenti sembra di percepire il fetore in cui vivono i reietti della Terra. E come Hugo – probabilmente – va al Louvre a riguardarsi il celebre quadro di Delacroix (Il 28 luglio: la Libertà guida il popolo) che ha ispirato lo stesso scrittore. Il risultato alla fine è uno straordinario equilibrio tra il musical più classico e patinato e una messa in scena cruda che ha il pregio di preservare la genuinità dei momenti cantati, quasi si fosse a teatro.
Comunque a mia moglie è piaciuto molto: ha pianto tanto. E questo vale quattro stelle.
Les Misérables (Gran Bretagna, 2012)
Un film di Tom Hooper.
Con Amanda Seyfried, Hugh Jackman, Helena Bonham Carter, Russell Crowe, Anne Hathaway, Sacha Baron Cohen, Eddie Redmayne, Aaron Tveit, Samantha Barks, George Blagden
durata 152 min.
Il regista Tom Hooper (premio Oscar per Il discorso del re) alterna sapientemente mirabolanti sequenze da kolossal d'altri tempi a momenti intimi con piani ravvicinati sui protagonisti, frenetiche riprese con macchina a mano a scene quasi statiche. L'idea di non quasi usare mai il playback per il canto dona un'efficace intensità alle interpretazioni: una su tutte, la straordinaria performance attoriale e canora di Anne Hathaway (Fantine) che tocca il suo apice con la struggente "I Dreamed a Dream".
Di alto livello tutte le interpretazioni. Hugh Jackman (Jean Valjean) affronta con impeccabili risultati un tour de force fisico e canoro, mentre gli intermezzi comici della coppia Sacha Baron Cohen e Helena Bonham Carter (i terribili coniugi Thénardier) sono godibili e perfettamente coreografati. Lascia il segno Samantha Barks, con la sua intensa "On My Own", mentre a Russel Crowe – vocalmente il più opaco del cast – tocca l'ingrato compito di dar vita all'antipatico, e un po' stolido, sbirro Javert.
Nonostante i toni da melodramma, il regista ha scelto un registro realistico per scene e costumi, tanto che in certi momenti sembra di percepire il fetore in cui vivono i reietti della Terra. E come Hugo – probabilmente – va al Louvre a riguardarsi il celebre quadro di Delacroix (Il 28 luglio: la Libertà guida il popolo) che ha ispirato lo stesso scrittore. Il risultato alla fine è uno straordinario equilibrio tra il musical più classico e patinato e una messa in scena cruda che ha il pregio di preservare la genuinità dei momenti cantati, quasi si fosse a teatro.
Comunque a mia moglie è piaciuto molto: ha pianto tanto. E questo vale quattro stelle.
Les Misérables (Gran Bretagna, 2012)
Un film di Tom Hooper.
Con Amanda Seyfried, Hugh Jackman, Helena Bonham Carter, Russell Crowe, Anne Hathaway, Sacha Baron Cohen, Eddie Redmayne, Aaron Tveit, Samantha Barks, George Blagden
durata 152 min.
venerdì 18 gennaio 2013
Quentin unchained
Django è uno schiavo reso uomo libero dal cacciatore di taglie King Schultz, che ne fa il suo aiutante. Django ha una moglie ancora schiava nella piantagione del crudele Calvin Candie e lui la libererà. Tra il dire e il fare c'è di mezzo un mare di sangue.
Continua il percorso di recupero e glorificazione del cinema di serie B da parte di un Tarantino in grande spolvero. Questa volta tocca allo spaghetti western, rifatto più grande, spettacolare, grottesco ed efferato che mai. Tempi dilatati, dialoghi alla Quentin, iperviolenza e – soprattutto – personaggi esagerati, interpretati da un cast all'altezza delle aspettative. Il più bravo di tutti, ancora lui, Cristoph Waltz, lanciato da Tarantino in Bastardi senza gloria e fresco di Golden Globe per la sua irresistibile interpretazione del dottor Schultz.
Diviso in più quadri, il film comincia un po' sottotono rispetto ad altre pellicole tarantiniane, ma continua poi con un'escalation che deflagra nella seconda metà. In mezzo, il siparietto esilarante e geniale con la presa per il culo del Ku Klux Klan.
Colonna sonora in linea col genere, ma farcita – come al solito – anche di brani estranei ed eccentrici. Tarantino si conferma regista esplosivo. Letteralmente.
Lunga fila davanti al cinema (il giovedì sera?!). Da non credere.
Django Unchained (USA, 2012)
Un film di Quentin Tarantino.
Con Jamie Foxx, Christoph Waltz, Leonardo DiCaprio, Samuel L. Jackson, Kerry Washington, Franco Nero, Jonah Hill, Quentin Tarantino, Don Johnson
Durata 165 min.
Continua il percorso di recupero e glorificazione del cinema di serie B da parte di un Tarantino in grande spolvero. Questa volta tocca allo spaghetti western, rifatto più grande, spettacolare, grottesco ed efferato che mai. Tempi dilatati, dialoghi alla Quentin, iperviolenza e – soprattutto – personaggi esagerati, interpretati da un cast all'altezza delle aspettative. Il più bravo di tutti, ancora lui, Cristoph Waltz, lanciato da Tarantino in Bastardi senza gloria e fresco di Golden Globe per la sua irresistibile interpretazione del dottor Schultz.
Diviso in più quadri, il film comincia un po' sottotono rispetto ad altre pellicole tarantiniane, ma continua poi con un'escalation che deflagra nella seconda metà. In mezzo, il siparietto esilarante e geniale con la presa per il culo del Ku Klux Klan.
Colonna sonora in linea col genere, ma farcita – come al solito – anche di brani estranei ed eccentrici. Tarantino si conferma regista esplosivo. Letteralmente.
Lunga fila davanti al cinema (il giovedì sera?!). Da non credere.
Django Unchained (USA, 2012)
Un film di Quentin Tarantino.
Con Jamie Foxx, Christoph Waltz, Leonardo DiCaprio, Samuel L. Jackson, Kerry Washington, Franco Nero, Jonah Hill, Quentin Tarantino, Don Johnson
Durata 165 min.
venerdì 11 gennaio 2013
Atlante delle storie
Storie, crimini e amori s'intrecciano nel corso dei secoli, tra l'Ottocento e un futuro remoto.
I Wachowski + Tykwer sfornano un film ambizioso e complesso, che miscela narrazioni e generi in un caleidoscopico zapping, pieno di echi e rimandi. È una sorta di blob cinematografico, con sei trame frammentate – alternate con temerario ritmo – e montate con precisione maniacale. Ogni sequenza rimanda ad un'altra, in un vertiginoso gioco di specchi e citazioni, di cause ed effetti. Tralasciando le tematiche new age del karma e del "tutto è connesso" – affrontate in modo sbrigativo e superficiale – resta il fascino irresistibile dell'arte di narrare, della quale il film costruisce un monumento. Incorniciate dai racconti di un vecchio davanti ad un falò, le varie storie s'incastrano una nell'altra, passando tra le varie epoche grazie alle molteplici vie che la narrazione ha trovato per diffondersi nel corso della storia umana. Ecco allora che le storie tramandate con il racconto orale, il diario, le lettere, il romanzo, il film, finanche la sinfonia (Cloud Atlas è il titolo della composizione scritta da uno dei personaggi), viaggiano nel tempo e finiscono per cambiare la Storia. E insieme alle storie viaggiano le idee, che trovano le vie più strane e inaspettate per propagarsi.
Visivamente meno sperimentale dello sfortunato Speed Racer, Cloud Atlas osa solo nell'uso e abuso di una manciata di attori e ha nel trucco facciale il vero effetto speciale.
Maiuscolo – come sempre – l'apporto di attori navigati e versatili come Jim Broadbent, sorprendente quello di Tom Hanks (qui, credo, al suo primo ruolo di villain) e scontata la prestazione – spesso molto autoironica – di Hugo Weaving, cattivo in tutte le epoche e in tutti i sessi.
Nonostante la durata impegnativa, il film non annoia mai, ma a volte fallisce nel coinvolgere lo spettatore nelle storie che racconta, causa l'eccessiva frammentazione narrativa e la moltiplicazione dei protagonisti. Rimane in ogni caso un film originale e coraggioso, difficile da cogliere appieno in sala, ma che forse crescerà nella considerazione degli spettatori con il tempo e con ripetute e più attente visioni.
Cloud Atlas (USA, Germania, Singapore, Hong Kong, 2012)
Un film di Tom Tykwer, Andy Wachowski, Lana Wachowski.
Con Tom Hanks, Halle Berry, Jim Broadbent, Hugo Weaving, Jim Sturgess, Bae Doo-na, Ben Whishaw, James D'Arcy, Zhou Xun, Keith David, Susan Sarandon, Hugh Grant
Durata 172 min.
I Wachowski + Tykwer sfornano un film ambizioso e complesso, che miscela narrazioni e generi in un caleidoscopico zapping, pieno di echi e rimandi. È una sorta di blob cinematografico, con sei trame frammentate – alternate con temerario ritmo – e montate con precisione maniacale. Ogni sequenza rimanda ad un'altra, in un vertiginoso gioco di specchi e citazioni, di cause ed effetti. Tralasciando le tematiche new age del karma e del "tutto è connesso" – affrontate in modo sbrigativo e superficiale – resta il fascino irresistibile dell'arte di narrare, della quale il film costruisce un monumento. Incorniciate dai racconti di un vecchio davanti ad un falò, le varie storie s'incastrano una nell'altra, passando tra le varie epoche grazie alle molteplici vie che la narrazione ha trovato per diffondersi nel corso della storia umana. Ecco allora che le storie tramandate con il racconto orale, il diario, le lettere, il romanzo, il film, finanche la sinfonia (Cloud Atlas è il titolo della composizione scritta da uno dei personaggi), viaggiano nel tempo e finiscono per cambiare la Storia. E insieme alle storie viaggiano le idee, che trovano le vie più strane e inaspettate per propagarsi.
Visivamente meno sperimentale dello sfortunato Speed Racer, Cloud Atlas osa solo nell'uso e abuso di una manciata di attori e ha nel trucco facciale il vero effetto speciale.
Maiuscolo – come sempre – l'apporto di attori navigati e versatili come Jim Broadbent, sorprendente quello di Tom Hanks (qui, credo, al suo primo ruolo di villain) e scontata la prestazione – spesso molto autoironica – di Hugo Weaving, cattivo in tutte le epoche e in tutti i sessi.
Nonostante la durata impegnativa, il film non annoia mai, ma a volte fallisce nel coinvolgere lo spettatore nelle storie che racconta, causa l'eccessiva frammentazione narrativa e la moltiplicazione dei protagonisti. Rimane in ogni caso un film originale e coraggioso, difficile da cogliere appieno in sala, ma che forse crescerà nella considerazione degli spettatori con il tempo e con ripetute e più attente visioni.
Cloud Atlas (USA, Germania, Singapore, Hong Kong, 2012)
Un film di Tom Tykwer, Andy Wachowski, Lana Wachowski.
Con Tom Hanks, Halle Berry, Jim Broadbent, Hugo Weaving, Jim Sturgess, Bae Doo-na, Ben Whishaw, James D'Arcy, Zhou Xun, Keith David, Susan Sarandon, Hugh Grant
Durata 172 min.
mercoledì 2 gennaio 2013
Falso d'autore
Prima recensione del 2013 dedicata al cinema italiano, girato però con attori anglofoni e ambientato altrove (e forse per questo Trieste è sembrata perfetta per girarvi alcune scene).
L'esperto antiquario e battitore d'aste Virgil Oldman viene chiamato a valutare e vendere il patrimonio di una giovane ereditiera, che vive da reclusa nella decadente villa di famiglia. L'uomo s'invaghirà della misteriosa ragazza con conseguenze fatali per la sua esistenza solitaria.
Tornatore torna ad un'opera "quasi" da camera (come Una pura formalità) tutta giocata sull'apporto di pochi attori. In questo caso il film è sostenuto interamente dalla calibrata interpretazione di Geoffrey Rush, perno di un raffinato meccanismo di seduzione, attrazione e tradimento. I simbolici rimandi al mondo dell'orologeria e degli automi meccanici, che riverberano la struttura a orologeria della trama, si sprecano nel film (la bottega dell'orologiaio, l'automa settecentesco, l'incredibile ristorante alla fine). E così pure i raffinati riferimenti al mondo della pittura e del falso (roba che sarebbe piaciuta a Orson Welles) come metafore dei rapporti umani e sentimentali, sono perfettamente giocati. Ma tutta questa eleganza formale e questa ricchezza di simboli non salva il film da un epilogo prevedibile e maldestro. L'orologio del mistero, che funziona per la prima parte, annoia nella seconda, perché diventa prevedibilmente preciso. E quando arriva il colpo di scena, è talmente telefonato che nessuno si stupisce. Anzi, sembra quasi che Tornatore sia più interessato alla costruzione di questo complesso meccanismo che al suo perfetto funzionamento finale. Peccato, perché il tentativo di restituire uno spicchio di vita, grazie ad affascinanti giochi d'ingranaggi, risulta alla fine un po' falso.
The Best Offer (Italia, 2012)
Un film di Giuseppe Tornatore
Con Geoffrey Rush, Jim Sturgess, Sylvia Hoeks, Donald Sutherland, Philip Jackson
Durata 124 min.
L'esperto antiquario e battitore d'aste Virgil Oldman viene chiamato a valutare e vendere il patrimonio di una giovane ereditiera, che vive da reclusa nella decadente villa di famiglia. L'uomo s'invaghirà della misteriosa ragazza con conseguenze fatali per la sua esistenza solitaria.
Tornatore torna ad un'opera "quasi" da camera (come Una pura formalità) tutta giocata sull'apporto di pochi attori. In questo caso il film è sostenuto interamente dalla calibrata interpretazione di Geoffrey Rush, perno di un raffinato meccanismo di seduzione, attrazione e tradimento. I simbolici rimandi al mondo dell'orologeria e degli automi meccanici, che riverberano la struttura a orologeria della trama, si sprecano nel film (la bottega dell'orologiaio, l'automa settecentesco, l'incredibile ristorante alla fine). E così pure i raffinati riferimenti al mondo della pittura e del falso (roba che sarebbe piaciuta a Orson Welles) come metafore dei rapporti umani e sentimentali, sono perfettamente giocati. Ma tutta questa eleganza formale e questa ricchezza di simboli non salva il film da un epilogo prevedibile e maldestro. L'orologio del mistero, che funziona per la prima parte, annoia nella seconda, perché diventa prevedibilmente preciso. E quando arriva il colpo di scena, è talmente telefonato che nessuno si stupisce. Anzi, sembra quasi che Tornatore sia più interessato alla costruzione di questo complesso meccanismo che al suo perfetto funzionamento finale. Peccato, perché il tentativo di restituire uno spicchio di vita, grazie ad affascinanti giochi d'ingranaggi, risulta alla fine un po' falso.
The Best Offer (Italia, 2012)
Un film di Giuseppe Tornatore
Con Geoffrey Rush, Jim Sturgess, Sylvia Hoeks, Donald Sutherland, Philip Jackson
Durata 124 min.
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