sabato 20 febbraio 2010

La Repubblica delle Banane (marce)



Il figlio più piccolo
è un impietoso e riuscito ritratto dell'Italia contemporanea e dei suoi capitalisti d'accatto. Immagino che Avati abbia voluto calcare la mano, costruendo certe situazioni al limite della satira più caustica ed esagerando lo squallore morale dei loschi figuri protagonisti del suo film. Ma la cronaca di questi giorni lo sorpassa ampiamente in ferocia e questo fa comprendere com'è difficile stigmatizzare certi difetti del nostro Paese in una qualsiasi opera di finzione. La realtà è già disgustosamente più in là. E mentre sullo schermo vedi i meschini traffici di uomini d'affari senza vergogna, pensi a quelli veri e non hai già più voglia di ridere della cafoneria o della ribalda spregiudicatezza dei personaggi avatiani: vuoi solo vomitare. Precisato ciò, il film funziona, ed è perversamente piacevole.
Avati – come già accaduto più volte in passato – mette insieme un cast eccentrico e sorprendente. Christian De Sica è perfetto nel ruolo di Luciano Baietti, finanziere d'assalto cialtrone, e dà quasi fastidio vedere come finora ha sprecato il suo indubbio talento in filmacci da grandi incassi ma infimo spessore. Qui finalmente veste i panni di un personaggio a tutto tondo, un ruolo degno del miglior Sordi, capace di una recitazione trattenuta e convincente. Zingaretti è bravo nel tratteggiare l'ipocondriaco e monacale consigliori del protagonista, uno sfuggente faccendiere che trama nell'ombra, mentre la Morante è la fragile e svampita ex-moglie di Luciano. Il figlio più piccolo del titolo è la scoperta Nicola Nocella, che ha la freschezza e il phisique du role necessario per calarsi nei panni del candido Baldo, vittima predestinata delle macchinazioni paterne. Avati ripesca dall'archivio storico televisivo anche una rediviva Sydne Rome, partner della Morante nel loro patetico duo di cantanti hippie.
Il regista bolognese lancia riuscite frecciate a destra e a manca, mostrando il disfacimento di una società amorale e senza cultura, e lo fa con imperturbabile grazia e leggerezza. Non ci sono personaggi veramente positivi nel film e sembra non esserci nessuna vera redenzione. Anche l'ingenuo figlio più piccolo è alla fine solo un povero idiota che insegue sogni impossibili e risibili (studia al Dams e vuole fare un film con protagonisti due trans cannibali). E l'apparente conciliante finale è di una tristezza agghiacciante. Questo è il mondo in cui viviamo. No future.

Il figlio più piccolo (Italia, 2010)
Un film di Pupi Avati.
Con Christian De Sica, Laura Morante, Luca Zingaretti, Sydne Rome, Nicola Nocella, Fabio Ferrari, Marcello Maietta, Massimo Bonetti, Alberto Gimignani, Maurizio Battista, Giulio Pizzirani, Pino Quartullo.
Durata 100 min.

sabato 13 febbraio 2010

La ragazza che non c'era


Sulla carta Amabili Resti poteva diventare un piccolo gioiello – tipo Creature del Cielo – nella filmografia di Peter Jackson. In entrambi c'è un atroce delitto, ragazze protagoniste e tutto un mondo fantastico da creare. Invece…
Il bel romanzo della Sebold (ha uno degli incipit* più fulminanti degli ultimi anni), da cui è tratto il film, viene smontato, semplificato e svuotato accuratamente da tutta la sua carica sensuale e sessuale. La quattordicenne Susie Salmon viene stuprata e fatta a pezzi dal suo vicino di casa. Prigioniera di un mondo perfetto, un limbo indefinito tra l'aldilà e il mondo terreno, seguirà da spettatrice le vicende dei suoi cari, gli amabili resti, e tutto quel che nascerà attorno alla sua assenza. Il film lascia fuori campo la violenza – e possiamo anche condividerlo – ma poi fa piazza pulita anche di un elemento importante e non secondario nel romanzo: la sessualità, appunto. Morta alla soglia dell'adolescenza, Susie non conosce nè amore nè il sesso e li vivrà solo per interposta persona (attraverso la sorella, la madre, le amiche). Solo così si spiega questo suo voler rimaner legata alle vicende del mondo terreno. Non c'è sete di vendetta in lei, ma solo uno struggente rimpianto per ciò che le è stato tolto. Questo tema nel film è praticamente inesistente.
La pellicola è visivamente molto curata, come ci si aspetta da Peter Jackson. Ma ci sono cose apprezzabili e altre meno. Bella la scelta di far vivere la famiglia Salmon e il suo dolore in un eterno paesaggio autunnale, splendida la sequenza quasi astratta in cui Susie capisce di essere stata assassinata, ottima quella in cui sua sorella s'intrufola nella casa dell'omicida. Più discutibile la visualizzazione del limbo di Susie – un mondo che resta piuttosto indefinito nel romanzo – una fantasmagoria di surrealismo pop al limite del kitsch che ricorda pericolosamente l'altro mondo del terribile Al di là dei sogni. Un po' di moderazione in questo caso avrebbe aiutato il film, ma forse è chieder troppo al buon Peter. Che, come sempre, non si fa mancar niente. Oltre all'eccessivo paradiso in CGI, fa un uso massiccio del grandangolo, di inquadrature fortemente scorciate e di dettagli giganteschi (non se ne vedevano così dai tempi di Cuore selvaggio).
Splendida la giovane Saoirse Ronan (Susie) e ottima Susan Sarandon nel ruolo della nonna, opachi gli altri interpreti, penalizzati da una sceneggiatura che ridimensiona molto il loro spessore psicologico. Efficace Stanley Tucci (George Harvey, l'assassino), che lavora sul personaggio per sottrazione e forse non aveva bisogno del discutibile travestimento da serial killer anni Settanta. Peccato che l'ampio respiro della narrazione della Sebold viene racchiuso in un film che spesso corre dove dovrebbe rallentare e viceversa.
In conclusione: dal ragazzo ci si aspettava di più. Rimandato… tra gli Hobbit.

Curiosità. Un po' come Hitchcock anche il nostro Peter si concede brevi apparizioni nei suoi film. Qui lo vediamo mentre prova una cinepresa superotto nel negozio di fotografia. Come se non bastasse, qualche scena prima, c'è il poster del Signore degli Anelli in bella evidenza nella vetrina di una libreria. Maramaldo!

The Lovely Bones (USA, Gran Bretagna, Nuova Zelanda 2009)
Un film di Peter Jackson.
Con Mark Wahlberg, Rachel Weisz, Susan Sarandon, Stanley Tucci, James Michael Imperioli, Saoirse Ronan
Durata 135 min.
VM 14
* "Mi chiamavo Salmon, come il pesce. Nome di battesimo Susie. Avevo quattordici anni quando fui uccisa, il 6 dicembre del 1973." (Alice Sebold, Amabili resti, Edizioni e/o, 2002)

venerdì 5 febbraio 2010

About a girl



Mia moglie – grande fan di Nick Hornby – mi ha gentilmente trascinato a vedere An education, prima sceneggiatura dello scrittore inglese piuttosto frequentato dal cinema (Febbre a 90, Alta fedeltà, About a Boy).
Il film narra l'educazione sentimentale di una studentessa sedicenne, soffocata dalla noia e dal conformismo in un sobborgo inglese dei primi anni sessanta. La brillante Jenny, tutta grigia scuola e casa piccolo borghese, incontra David, affascinante uomo di mondo, che ha il doppio della sua età. Non ci mette molto ad esserne sedotta e mandare all'aria il futuro che la famiglia ha programmato per lei. La sua fame di arte, di musica, di mondo, le fa fare scelte che si riveleranno avventate.
La storia è minimale – quasi banale – ma è solo uno spunto per un sincero ritratto di una giovane donna che cerca la sua strada nella vita, a dispetto di scuole castranti, padri dagli orizzonti limitati e uomini mascalzoni. Una vera eroina dal cuore puro, che rivendica la sua libertà in un mondo che vuole le donne istruite sì, ma solo per fare un buon matrimonio.
Il film ha dei bei dialoghi e buone battute: si sente la mano di Hornby. È piacevole anche la ricostruzione della Londra prima dei Beatles e addirittura sfolgorante Carey Mulligan, candidata all'Oscar per questo ruolo. La scelta di Peter Sarsgaard per David invece toglie la sorpresa del colpo di scena finale, perché con quella faccia lì finisce sempre a fare il bastardo.
Non sarà un capolavoro, e probabilmente non vincerà nessuno dei tre Oscar al quale è candidato (miglior film, miglior attrice protagonista, miglior sceneggiatura non originale) , ma An education è un film piacevole e intelligente. Adatto alle signorine.

An education (Gran Bretagna, 2009)
Un film di Lone Scherfig
Con Peter Sarsgaard, Carey Mulligan, Alfred Molina, Dominic Cooper, Rosamund Pike, Olivia Williams, Emma Thompson, Cara Seymour, Matthew Beard, Sally Hawkins
Durata 100 min.

giovedì 4 febbraio 2010

La guerra è una droga


Faccio un'eccezione alla regola di recensire solo i film visti in sala, per questa pellicola indipendente, candidata ora a 9 Oscar (1). "The Hurt Locker", uscito in Italia già nel 2008 (dopo il passaggio al Festival di Venezia), è stato pressoché ignorato dal grande pubblico (meno di 50 mila euro l'incasso del primo week-end). Colpa del titolo incomprensibile (2) e un di poster italiano graficamente autolesionista e senza appeal (qui ho pubblicato quello per il mercato scandinavo, il più accattivante di tutti).
La tosta Kathryn Bigelow ci mostra una cruda fetta dell'Iraq odierno, inseguendo le azioni di una squadra di artificieri. Ogni operazione è un un tentato suicidio nella roulette russa delle strade di Baghdad. Il sergente William James disinnesca auto-bomba, ordigni micidiali lasciati ai bordi delle strade, kamikaze involontari e perfino il "corpo-bomba" di un ragazzino (una delle scene più agghiaccianti del film). James non sembra temere la morte, a differenza dei suoi compagni di squadra. Si lancia in ogni missione con una passione perversa e sembra non poter farne a meno. Perché, come dice l'epigrafe all'inizio del film, "la guerra è una droga" (3). Ed è più potente dell'amore per la propria famiglia. Lo spericolato protagonista – come scopriamo in seguito – ha una bella moglie e un figlio piccolo a casa: un mondo lontano, quasi alieno a lui. Significativa la piccola ma perfetta sequenza della spesa all'ipermercato con la moglie, che vale più di mille parole.
"The Hurt Locker" è un film senza retorica, crudo ed essenziale, coinvolgente, potente e a volte poetico. Non è opera politica o impegnata come "Redacted" di DePalma: resta solo un film di genere bellico, ma girato benissimo e con un punto di vista originale su una guerra insensata. Ognuno trarrà le sue conclusioni. Spero che la pioggia di nomination agli Oscar lo riporti presto in sala.

The Hurt Locker (USA, 2008)
Un film di Kathryn Bigelow.
Con Jeremy Renner, Anthony Mackie, Guy Pearce, Ralph Fiennes, Brian Geraghty, David Morse, Christian Camargo, Evangeline Lilly
Durata 131 min.

1 Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Attore Protagonista, Migliore Sceneggiatura originale, Fotografia, Montaggio, Effetti sonori, Montaggio del suono, Colonna sonora
2 Il titolo del film è una locuzione presente nello slang militare americano usata per descrivere un luogo particolarmente rischioso in cui i risvolti sono imprevedibili. (Wikipedia)
3 "La furia della battaglia provoca una dipendenza fortissima e spesso letale, perché anche la guerra è una droga"
Chris Hedges, scrittore e corrispondente di guerra americano.