mercoledì 28 dicembre 2011

Le idi di Marte



Attenzione: possibili spoiler!
(Ho cercato di essere vago, ma insomma...)

Il governatore Mike Morris (George Clooney) è il candidato democratico in corsa per la presidenza USA con un programma stile Obama. Stephen Meyers (Ryan "prezzemolo" Gosling) è il suo bravo addetto stampa, brillante ed idealista. Ma anche il perfetto candidato liberal, progressista e piacione, nasconde un lato oscuro. Meyers lo scoprirà a sue spese.
Il titolo – molto colto – rimanda ad uno dei più classici tradimenti (l'assassinio di Giulio Cesare) ed il film è un coacervo di tradimenti. Ma quello che interessa al regista è il più grave di tutti: tradire i propri stessi ideali e diventare solo una delle ciniche pedine nella lotta per il potere. Meyers crede, più del candidato per cui lavora, al programma che lui propone agli elettori. Quando scopre i "danni collaterali" di una scappatella del governatore con una giovane stagista, si spenderà per coprirli. Ma poi, per un suo gesto avventato, verrà licenziato su due piedi. La coincidenza di questi due avvenimenti porterà a tragiche conseguenze.
Clooney ci mostra che la politica è un gioco sporco, senza buoni né cattivi – e fin qua niente di nuovo – ma lo mette in scena con grande abilità, con un crescendo da thriller, avvalendosi di un ottima sceneggiatura e un cast spettacolare.
Certo, il moralismo americano a noi italiani fa un po' ridere (una carriera politica rovinata da un'avventura extraconiugale, ah, ah ah...) e mi sembra che pure Clooney ironizzi su questa ipocrisia tipicamente yankee quando fa dire: "Puoi invadere, fare una guerra, portare una nazione alla bancarotta, mentire. Ma non puoi scoparti una stagista, ti uccideranno per questo".
Ed è proprio questo uno dei limiti del film. In Italia puoi fare proprio tutte queste cose, in più orge ogni sera con le minorenni, e non ti succederà nulla. Sembra un film marziano… oppure i marziani siamo noi!

The Ides of March (USA, 2011)
Un film di George Clooney.
Con Ryan Gosling, George Clooney, Philip Seymour Hoffman, Paul Giamatti, Marisa Tomei, Evan Rachel Wood, Max Minghella, Jeffrey Wright.
Durata 101 min.

lunedì 26 dicembre 2011

Spettacolare, Watson!



Secondo capitolo della rivisitazione in chiave "ggiovane" del personaggio di Conan Doyle, che 'sta volta deve addirittura sventare una prossima guerra mondiale, agevolata dalle perfide azioni del dottor Moriarty, storico arcinemico di Sherlock Holmes.
E la ricetta di Guy Ritchie è: più azione, più botte, più slow motion esagerati, più esplosioni e un Robert Downing Jr. strafatto, con la faccia tumefatta per gran parte del film. New entry: oltre al malvagio dottor Moriarty, una tosta gitana con il volto spigoloso di Noomi Rapace e il flemmatico fratello di Sherlock, Mycroft, interpretato dall'impagabile Stephen Fry (imperdibile il siparietto con lui tutto nudo e l'imbarazzatissima neo moglie del dr. Watson).
Il film parte con qualche lentezza, ma diventa scoppiettante nelle scene d'azione e negli equivoci duetti tra Holmes e Watson, una vera relazione impropria, ironicamente sottolineata nelle scena del treno con un Sherlock en travesti degno del Rocky Horror (mia moglie dixit).
Questa lettura fast and furious di Sherlock Holmes, trasforma il suo caratteristico talento deduttivo quasi in un dono da supereroe, ingarbuglia la trama e la usa per architettare barocche sequenze iper-cinetiche con effetti stile Matrix (molto riuscita la fuga nella foresta tedesca con tronchi che esplodono al ralenty). Conan Doyle ne sarebbe contento? Forse no, ma il pubblico "ggiovane" apprezzerà. E comunque gran botto al botteghino, almeno in Italia.

Sherlock Holmes: A Game of Shadows (USA, 2011)
Un film di Guy Ritchie.
Con Robert Downey Jr., Jude Law, Noomi Rapace, Stephen Fry, Jared Harris
Durata 129 min.

mercoledì 2 novembre 2011

Un tipo avventuroso



Il celebre reporter dal ciuffo rosso (uscito dalla matita di Hergé) viene coinvolto in una serie di mirabolanti avventure alla ricerca di un favoloso tesoro.
Il primo incontro di Spielberg con la motion capture e l'animazione digitale in 3D è un riuscito film d'avventura pura, ritmato, ed esuberante. Lo straniante effetto dell'umano fotorealistico viene dribblato creando dei personaggi fortemente caricaturali, ma dai movimenti fluidi e verosimili, mentre la grande attenzione per la fotografia e la scenografia traghetta questa tecnica verso un livello di maturità mai visto prima. È curioso vedere le piatte figure di questo fumetto diventare dei pupazzotti così a tutto tondo, ma il character design funziona. La trama procede spedita senza troppe complicazioni, ed è un pretesto per passare da una scena rocambolesca ad un'altra. L'uso della macchina da presa virtuale è quanto mai barocco e fa precipitare lo spettatore al centro dell'azione: se vi sembravano baracconate da lunapark certe sequenze di Indiana Jones, qua siamo ben oltre l'effetto ottovolante. Sembra che il vecchio Spielberg si sia voluto divertire, non avendo più i limiti fisici della macchina da presa vera. Perciò via con gli inseguimenti su ogni mezzo di locomozione, coreografici duelli e catastrofiche distruzioni.
Il film, nel complesso, è divertente. L'unico limite è proprio quel saputello perfettino di Tin Tin che, a differenza di Indiana Jones (sua versione spielberghiana), manca totalmente di ironia. Meno male che ci sono quegli scemi dei Thomson & Thompson e il Capitano Haddock a portare un po' di humour. Indubbiamente il film si rivolge al pubblico più giovane, ma gli adulti non si annoieranno.

The Adventures of Tintin: The Secret of the Unicorn (USA / Nuova Zelanda / Belgio, 2011)
Un film di Steven Spielberg
Con Jamie Bell, Andy Serkis, Daniel Craig, Simon Pegg, Nick Frost.
Durata 107 min.

sabato 29 ottobre 2011

Tipi da bar



Italia, anni Settanta. Il Bar Sport di un paesino della provincia romagnola e i suoi stralunati avventori sono al centro di una serie di vicende tra Pupi Avati e il realismo magico.
Dalla celebre raccolta di racconti di Stefano Benni se n'è ricavato un film discontinuo, con una serie di episodi non amalgamati tra di loro e con dei personaggi ridotti a macchiette, nonostante la presenza di un cast di altro profilo. Le invenzioni surreali e la splendida prosa molto inventiva di Benni si perdono per strada, anche se il regista tenta qua e là di tradurle in immagini (in alcuni casi con l'uso dell'animazione – piuttosto bruttina per la verità). Forse bisognava trovare uno straccio di chiave visiva un pelo più originale o avere un regista geniale e visionario come Jean-Pierre Jeunet dietro la macchina da presa. Invece qui c'è solo la voce narrante del barista Onassis, usata come banale espediente per tentare di trasferire le atmosfere dal libro al film.
La bravura degli interpreti strappa qua e là qualche risata, ma la pellicola sembra procedere in modo zoppicante e senza grandi colpi di genio.
Pare proprio che i libri di Benni non abbiano molta fortuna nella loro trasposizione cinematografica: ci aveva provato lui stesso con Musica per vecchi animali (tratto dal suo strepitoso romanzo Comici spaventati guerrieri) con un risultato mediocre, nonostante la presenza di Dario Fo e Paolo Rossi tra i protagonisti. E questo qui è anche peggio. Peccato.

Bar Sport (Italia, 2011)
Un film di Massimo Martelli.
Con Claudio Bisio, Giuseppe Battiston, Antonio Catania, Angela Finocchiaro, Lunetta Savino
Durata 93 min.

martedì 18 ottobre 2011

L'uomo con gli occhi da bambino



Cheyenne, rockstar in disarmo che si veste e si trucca come un dark degli anni Ottanta, mena un'esistenza vuota e annoiata in quel di Dublino. Quando gli comunicano che il padre, che non vede da trent'anni, sta per morire, parte per l'America. Giunge troppo tardi, ma scopre che il genitore, sopravvissuto ai lager nazisti, ha speso tutta la vita nella ricerca del suo aguzzino. Cheyenne allora si mette in viaggio per trovarlo.
Un po' road movie e un po' romanzo di formazione (dove il protagonista però è un uomo di cinquant'anni), This must be the place ha la sua forza nell'indimenticabile personaggio di Cheyenne e dell'interpretazione che ci regala uno Sean Penn in stato di grazia. L'attore dà spessore e umanità ad una figura ai limiti del grottesco, un uomo adulto che attraversa il mondo con disarmante candore e con l'innocente cattiveria dei bambini. L'esile trama è solo un pretesto per raccontare il suo viaggio verso l'età adulta, verso il suo posto nel mondo. Ne risulta un film dolceamaro, variegato, come gli incontri – improbabili, drammatici, stralunati – che Cheyenne fa nel suo itinerario e che ricordano un po' l'America dimessa del lynchiano Una storia vera.
Sorrentino conferma il suo personale talento visivo, con un film preciso nella scelta delle location, perfetto nel casting (anche dell'ultima comparsa), inventivo nell'uso della macchina da presa, ottimo nei dialoghi, e che riesce nell'impresa di realizzare un'opera d'autore profonda e divertente. Ha osato rischiare e ha vinto la scommessa. Probabilmente il miglior film "italiano" dell'anno.

This must be the place (Italia, Francia, Irlanda 2011)
Un film di Paolo Sorrentino.
Con Sean Penn, Frances McDormand, Eve Hewson, Harry Dean Stanton, Joyce Van Patten.
Durata 118 min.

sabato 15 ottobre 2011

Sfida all'ET Corral



Un cavaliere solitario e senza memoria giunge in una piccola cittadina del West. Porta uno strano tecnologico bracciale al polso. Scoprirà di essere un bandito ricercato ma, mentre lo stanno portando a processare, la cittadina subisce un attacco da parte di oggetti volanti, che rapiscono numerosi abitanti. Allora scoprirà anche a che cosa serve il suo bracciale.
Cowboys & Aliens è un film la cui originalità si esaurisce con il titolo, del resto piuttosto onesto, perché riassume perfettamente il film. Infatti si tratta di un classico western incrociato – con una certa temerarietà – con la fantascienza. Del western riprende tutti gli elementi e i personaggi più caratteristici (straniero taciturno e misterioso, allevatore prepotente, figlio deficiente dell'allevatore, barista pacifista, sceriffo con nipote orfano, guida indiana, banditi…) e li miscela con quelli del più ovvio film d'invasione aliena, con extraterrestri brutti cattivi e voraci. Ma, per amalgamare meglio il tutto, questi alieni assumono qualche caratteristica western: sono venuti sulla terra a cercare l'oro e prendono i terrestri letteralmente al lazo con le loro navicelle. Insomma un plot degno di Ed Wood dentro un film con un budget sostanzioso e un cast di primo livello. Se si tralascia l'effetto straniante di astronavi che inseguono banditi a cavallo e alieni trafitti da frecce indiane (e qui siamo quasi in zona Monthy Python), il film è pure godibile e divertente. Del resto, se uno va a vedere un film con questo titolo, non si può aspettare Bergman.

PS: in ogni caso mia moglie è stata soddisfatta dalla presenza di Daniel Craig. Per mia fortuna c'era anche Olivia Wilde.

Cowboys & Aliens (USA, 2011)
Un film di Jon Favreau.
Con Daniel Craig, Harrison Ford, Olivia Wilde, Sam Rockwell, Adam Beach, Paul Dano, Keith Carradine.
Durata 118 min.

mercoledì 28 settembre 2011

Shock the monkey



Will Rodman è uno scienziato che sta cercando la cura per l'Alzheimer testando un farmaco sugli scimpanzè. Non troverà la cura, ma le scimmie diventeranno intelligentissime. Gli uomini, invece, restano gli stupidi di sempre.
Piacevole remake (o reboot, come dicono i fighi) della saga del "Pianeta delle Scimmie", sorprendentemente fatto benissimo. Pur stigmatizzando la pessima abitudine hollywoodiana nel ripescare soggetti dal passato, devo ammettere che questa pellicola è girata con stile, ritmo e una cura che altrove ­ in film del genere ­ latitano. Non è un film d'autore, certo, ma puro cinema-godimento per gli occhi che però non tralascia il cervello.
A volte tende a sottolineare didascalicamente alcune scene come se si rivolgesse a bambini di tre anni (difetto comune a molti film americani per il grande pubblico). Per esempio, quando lo scimpanzè Cesare, portato a spasso nel parco, incrocia il cane al guinzaglio, prende coscienza di come viene trattato dal suo padre-padrone: bastava il gioco di montaggio tra lo sguardo di Cesare e l'inquadratura del guinzaglio a far capire tutto, senza bisogno del successivo dialogo pleonastico. Insomma, il regista poteva osare di più, un po' di sano sperimentalismo da cinema muto, visto che aveva per gran parte del film in scena delle scimmie non parlanti.
Ma non pretendiamo troppo. L'alba del pianeta delle scimmie resta un film molto piacevole da vedere, senza cali di tono, con sequenze d'azione ideate e girate con intelligenza, un perfetto taglio epico e alcune sequenze memorabili (lo scontro di Cesare con il carceriere nel ricovero, la corsa delle scimmie sugli alberi del viale, la fuga sul Golden Gate).
Impressionante la resa delle scimmie digitali, con il veterano Andy Serkis che "interpreta" Cesare. La sua performance è talmente convincente che offusca quella del legnoso James Franco (e della bella statuina Freida Pinto) e vale da sola il biglietto.
Il film prepara ai sequel, introducendo ­– con discrezione – il tema dell'epidemia tra gli umani e quello degli astronauti dispersi nello spazio durante la missione su Marte. Alla prossima puntata.

Rise of the planet of the apes (USA, 2011)
Un film di Rupert Wyatt.
Con James Franco, John Lithgow, Freida Pinto, Andy Serkis, Brian Cox, Tom Felton
Durata 105 min.

domenica 25 settembre 2011

Lavori in pelle



Un chirurgo estetico (Robert Ledgard / Antonio Banderas) molto inventivo si vendica in modo originale di chi ha causato la morte della figlia.
Chi ha trovato il film precedente un esercizio di stile un po' sterile, apprezzerà ancor meno quest'ultima pellicola di Almodóvar.
È difficile dar torto a questi critici, perché in La pelle che abito il gioco estetico è ancor più evidente e fine a se stesso. La storia spesso sembra rieccheggiare quei simpatici film con Vincent Price nel ruolo del folle dottore vendicativo, ma i risvolti della trama – un passo oltre il grottesco – non aiutano ad appassionarsi alle vicende di personaggi sempre al limite della credibilità. E alla fine ci si chiede qual è il succo di quest'opera, piena di riferimenti all'arte visiva (dichiarato l'omaggio alle opere di Louise Bourgeois con l'esplicito parallelo tra le sue sculture e la creazione di un corpo nuovo), al mito di Frankenstein, al cinema almodovariano del passato, visivamente curata e stimolante, ma decisamente fredda e costruita a tavolino con precisione… chirurgica. La mutazione del personaggio centrale – carnefice involontario e vittima della follia del dottore Ledgard –, forse l'unico tema di un certo interesse nel film, è irrisolta, lacunosa, per non parlare del finale piuttosto frettoloso e discutibile. Un film bello da vedere ma poco emozionante.

La piel que habito (Spagna, 2011)
Un film di Pedro Almodóvar.
Con Antonio Banderas, Elena Anaya, Marisa Paredes, Jan Cornet, Roberto Álamo
Durata 120 min.

martedì 20 settembre 2011

Il cavaliere senza nome



Un autista di rapine e stuntman part-time incontra Irene, una giovane madre, sua vicina di casa. Il marito di lei, uscito di galera, è nei guai. Lo aiuterà, ma tutto andrà storto. Seguirà una grande spirale di violenza con finale aperto.
L'Autista senza nome è un cavaliere (con lo stemma dello scorpione) che aiuta la donzella in difficoltà. Gentile e di poche parole quanto freddo e letale, farà di tutto per proteggere Irene, con cui intreccia un rapporto platonico.
Il regista (premiato a Cannes 2011) firma un personale crime movie, dall'aspetto anni Ottanta (a partire dalla colonna sonora dalle sonorità so eighties), un po' Vivere e morire a Los Angeles di Friedkin, un po' Abel Ferrara d'annata (ma scritto meglio) e con una spruzzata di Old Boy di Chan-wook Park.
Drive è decisamente un film bifronte come il protagonista. Infatti alterna sequenze lente, dialoghi muti, morbidi ralenty a scoppi di violenza iperralista e piuttosto pulp. E quello che lascia all'immaginazione dello spettatore è peggio di quel che mostra.
Le strade di Los Angeles (splendidamente fotografata da Newton Thomas Sigel) fanno da sfondo alle imprese dell'Autista. La città è piena di scorci perfetti per questo genere di film, anche se alcune location sono un po' troppo logore (la corsa nel letto di cemento del fiume al centro della città potevano risparmiarcela).
Buona prova d'attore della stella nascente Ryan Gosling, che dà corpo ad un personaggio dimesso e controllato, con imprevedibili scatti di feroce (ma giustificata) violenza. Emblematica in questo senso la scena dell'ascensore per la magistrale miscela di tenerezza e brutalità.
Drive è un interessante e riuscito mix tra cinema d'autore (europeo, come direbbe il produttore mafioso nel film) e cinema di genere, e potrebbe diventare un piccolo cult.
Da vedere. Le ragazze dallo stomaco debole girino al largo (e ripieghino su Crazy Stupid Love, sempre con Ryan Gosling).

Drive (USA, 2011)
Un film di Nicolas Winding Refn.
Con Ryan Gosling, Bryan Cranston, Carey Mulligan, Albert Brooks, Oscar Isaac.
Durata 95 min.

Visto in anteprima grazie a Bora.La

domenica 18 settembre 2011

Ah, l'amore!



Di tanto in tanto, confuse tra le varie scemenze estive, escono delle commedie decenti, che non sono state realizzate per un pubblico di lobotomizzati. Poi, ovviamente, l'esercente di turno le mette in programmazione nella sala grande come il mio soggiorno, perché nell'altra ci sono i Puffi in 3D – che già a vedere il trailer uno darebbe fuoco al cinema…
Crazy Stupid Love* è un intelligente film corale che parla dell'amore e delle sue follie, intrecciando le vite di vari personaggi, tutti legati tra loro. C'è la coppia in crisi, il figlio di questa cotto della baby-sitter, il don giovanni e la fanciulla che non cede al suo corteggiamento e così via.
Il film, che inizia e si sviluppa in maniera originale, sbanda un po' nello zuccheroso verso il finale (il catartico discorso strappalacrime è un passaggio obbligato in questo genere di film), ma resta sopra la media per precisione della scrittura, battute e bravura degli interpreti (irresistibili i duetti tra Steve Carrel e Ryan Gosling).
L'amore è folle, stupido o fa schifo – come dice l'amareggiato tredicenne innamorato senza speranza della giovane baby-sitter – e a tutte le età induce a comportamenti piuttosto bizzarri. Ma alla fine, tra scaramucce amorose, equivoci, frizzanti colpi di scena, ogni storia avrà la sua degna (e provvisoria) conclusione. Ed è giusto così, perché in fondo di commedia si tratta e bisogna pur uscir di sala col buonumore.
Il pubblico femminile lo apprezzerà molto.

*Per fortuna la distribuzione italiana ha lasciato invariato il calzante titolo. Il precedente film dei due registi, il curioso "I Love You Phillip Morris" è stato tradotto con "Colpo di fulmine - Il mago della truffa" e presentato nei trailer italiani come un film scemotto con Jim Carrey, ma era ben altra cosa.

Crazy stupid love (USA, 2011)
Un film di John Requa, Glenn Ficarra.
Con Steve Carell, Julianne Moore, Emma Stone, John Carroll Lynch, Marisa Tomei.
Durata 118 min.

sabato 10 settembre 2011

ET spacca tutto



Ohio, 1979. Un gruppo di ragazzini sta girando un filmino di zombie quando si trova al centro di un insolito disastro ferroviario. Sul posto piombano i militari, la zona diventa off-limits e in città cominciano accadere cose davvero strane.
Immaginate che ET sia stato preso dai militari (cattivi) e segregato per anni, vittima di atroci esperimenti. Poi, un bel giorno, riesce a scappare. Solo che questo ET è grande, grosso e incazzato con il mondo intero.
J.J. Abrams crea una furba variante dell'alieno che vuol tornare a casa, un alieno mostruoso ma in fondo non tanto cattivo, perché anche in questo film i veri mostri sono gli uomini. Astutamente, ce lo fa vedere molto poco, facendolo apparire molto in là nel film (lezione imparata da Lo squalo di Spielberg) e l'unico suo intenso primo piano lo troviamo nella scena più "umanista" del film nel pre-finale.
Ma il cuore caldo e pulsante del film è l'amore per il cinema, parte integrante della trama, con il gruppetto di ragazzini capitanato dal cinefilo Charles e il suo filmino di zombie (imperdibile, lo si vede nei titoli di coda), ma anche meravigliosamente dichiarato da J.J. Abrams. Perciò grande spettacolarità nelle scene catastrofiche e d'azione ma pure una attenta resa dei personaggi e delle loro psicologie. Gli omaggi al cinema di Spielberg si sprecano e l'atmosfera generale di Super 8 è debitrice di molti film girati o prodotti da lui (che, del resto, produce pure questo), tanto che pure l'abituale compositore di Abrams, Michael Giacchino, tesse una colonna sonora "alla John Williams" (rinunciando quasi del tutto ai suoi caratteristici angosciosi glissati di archi dissonanti stile Lost).
Cast giovanissimo azzeccato, con una folgorante Elle Fanning che buca lo schermo da vera star. Un film decisamente vintage e godibilissimo, adatto anche a chi non ama le cervellotiche trame di Lost o Fringe.

Super 8 (USA, 2011)
Un film di J.J. Abrams.
Con Kyle Chandler, Elle Fanning, Joel Courtney, Gabriel Basso, Noah Emmerich.
Durata 112 min.

martedì 24 maggio 2011

Il senso di Malick per la vita



Un'intima storia familiare nell'America degli anni Sessanta s'intreccia con la nascita del mondo e della vita. La storia dell'infanzia di tre fratelli, tra un padre severo che impone una disciplina militaresca e una madre dolce e piena di grazia, si sfalda e si ricompone in un film dall'incedere sinfonico, ricco di immagini simboliche, a volte ai limiti dell'astratto, suggestive sequenze cosmiche e improvvisi guizzi poetici.
Terrence Malick, 67 anni e 5 film in 4 decenni, regista dalla riservatezza leggendaria, dimostra una prodigiosa libertà creativa, tessendo un film intimo e grandioso, narrativo e totalmente astratto. The Tree of Life seleziona i suoi spettatori con un inizio impegnativo, quasi ostico (almeno due persone uscite di sala dopo la prima mezz'ora), ma poi regala perle di poesia visiva e momenti di meditazione sui grandi temi della vita: nascita, morte, natura, fede, senso della vita. Le figure complementari dei genitori rappresentano due modi di affrontare l'esistenza: il padre insegna che la vita è dura e crudele e vuole temprare i figli perché non diventino dei falliti frustrati come lui; la madre invece trasmette il senso di un amore incondizionato per tutte le creature e per la natura. Ma le loro convinzioni vengono messe a dura prova da un improvviso lutto. E qui si inserisce il filo rosso che attraversa tutta la pellicola, fin dalla citazione biblica in apertura: il rapporto con la fede e un Dio che dà e che toglie senza nessuna logica e giustizia umane.
Palma d'Oro a Cannes 2011, The Tree of Life non è un film facile. L'uso delle voci off che esprimono i pensieri dei protagonisti, su lunghe sequenze di grande impatto visivo, forse sono un espediente un po' trito e fastidioso, il montaggio di immagini incongrue a volte è stancante, ma nel complesso è un film da vedere, soprattutto per la splendida ricchezza visiva, l'attenzione maniacale per la luce, la ricerca dell'inquadratura perfetta e una colonna sonora emozionante. Forse questo film è l'esperienza più vicina alla visione di 2001: Odissea nello Spazio da un bel po' di tempo in qua.

The Tree of Life (India / Gran Bretagna 2011)
Un film di Terrence Malick.
Con Brad Pitt, Sean Penn, Jessica Chastain, Fiona Shaw, Joanna Going.
Durata: 138 min

martedì 17 maggio 2011

Pensionati alla riscossa



Frank Moses, ex-agente CIA, mena una vita solitaria e noiosa in un anonimo sobborgo americano, intrattenendo una "relazione" al telefono con Sarah, un'impiegata dell'ufficio pensioni. Poi una mattina un commando di mercenari cerca di farlo fuori. Frank parte alla caccia dei mandanti, aiutato da un manipolo di attempati ex-colleghi e dalla malcapitata Sarah. Finirà tutto bene: è una commedia.
Non si vedevano tanti "vecchietti" tosti tutti insieme dai tempi di Space Cowboys, ma il tema della rivincita dei pensionati passa un po' in secondo piano in questo film d'azione molto molto divertente. Il plot è basico, ma la sceneggiatura asciutta e brillante serve perfettamente un cast all star che dà spessore a personaggi da fumetto. Scontri a fuoco esagerati, armi eccessive, corpi a corpo devastanti collidono con l'aspetto dimesso degli agenti in pensione. Bruce Willis è perfetto nel dar corpo all'agente duro fuori "mieloso" dentro (parola di Victoria / Helen Mirren). John Malkovich sembra divertirsi un mondo nel tratteggiare il suo Marvin, paranoico e folle, sopra le righe ma senza esagerare. Morgan Freeman è un gustoso nonnetto morente che coglie al balzo l'ultima occasione d'avventura della sua vita. Helen Mirren, compassata e letale, sempre elegante anche quando maneggia una mitraglia pesante, dispensa battute con irresistibile humour inglese. La regia di Robert Schwentke è solida, ma senza guizzi, e maneggia abilmente un cast da far tremare i polsi: infatti, oltre al sopraccitato quartetto, troviamo la brava e pluri-premiata Mary-Louise Parker, in ruoli minori i premi oscar Ernest Borgnine e Richard Dreyfuss, l'ottimo Bryan Cox e l'aitante Karl Urban. E proprio questo cast lussuoso e azzeccato, nonché una grande dose di ironia, fanno la differenza in un film altrimenti piuttosto scontato. Grande intrattenimento e divertimento assicurato.

Red (USA, Canada, 2010)
Un film di Robert Schwentke.
Con Bruce Willis, Morgan Freeman, John Malkovich, Helen Mirren, Mary-Louise Parker, Karl Urban, Ernest Borgnine, James Remar, Brian Cox, Richard Dreyfuss
Durata 111 min.

mercoledì 27 aprile 2011

Déjà vu Code



Un eroico capitano americano viene mandato a più riprese in missione nel corpo di un insegnante, durante gli ultimi otto minuti della sua vita su un treno per Chicago che sta per esplodere. Deve scovare l'attentatore. Alla fine ci riesce, ma…
Astuto mix di Ricomincio da capo e uno qualsiasi dei Die Hard, per un film d'azione (ma non troppo), con una spruzzata di fantascienza fintamente cervellotica (ah, la comoda la scusa della fisica quantistica per pasticciare con le trame che intrecciano tempi e universi paralleli).
Dopo l'esordio con il brillante Moon (una buona idea giocata bene con grande economia di mezzi), il regista Duncan Jones amalgama tante idee déjà vu in un film godibile ma non certo originalissimo. E i déjà vu dei loop temporali del protagonista scivolano dal film al pubblico, al quale pare di aver già visto tutto ciò: vivere nei panni di un altro, poco tempo per sventare un attentato, il prevedibile intreccio romantico (giusto per accontentare le spettatrici) e i colpi di scena che appaiono telefonatissimi ad uno spettatore un po' smaliziato. E devo tacere dell'ennesimo saccheggio dell'opera di Philip K.Dick, che - lui sì – di idee originali ne aveva, e Hollywood ci camperà ancora per cent'anni.
Ma sembra evidente che gli autori di Source Code non volevano impantanarsi in cubi di Rubik temporali in stile Donnie Darko (anche se c'è Jake Gyllenhaal) e hanno confezionato un classico film d'intrattenimento (che si finge intelligente) e niente più. Con po' di coraggio gli spunti della trama avrebbero potuto diventare anche stilisticamente più originali: per esempio girare tutto in soggettiva, oppure in piano sequenza senza stacchi di montaggio. E invece no, tutto è reso più banalmente, al costo di incongruenze piuttosto lampanti (come il capitano nel corpo dell'insegnante che mantiene ai nostri occhi le sembianze di Jake Gyllenhaal). Per una serata senza grandi pretese.
Nota al margine: ho visto il film al Cinecity in anteprima (come i veri critici) grazie a Bora.la e con una proiezione digitale ottima (si vedevano i pori di Michelle Monaghan e le venette rosse negli occhi di Jake Gyllenhaal), altroché certe robe sfocate nelle sale del centro di Trieste!

Source Code (USA / Francia, 2011)
Un film di Duncan Jones.
Con Jake Gyllenhaal, Michelle Monaghan, Vera Farmiga, Jeffrey Wright, Brent Skagford.
Durata 93 min.

sabato 16 aprile 2011

Ad ogni morte di Papa



Il conclave ha nominato il nuovo pontefice, ma il prescelto (Michel Piccoli) va in crisi prima di essere presentato al mondo. Il Vaticano chiama uno psicoanalista (Nanni Moretti) che non risolverà nulla. Intanto il novello Papa scappa e vaga in incognito per Roma, fa cose, incontra gente…
Moretti, che fa un film ad ogni morte di Papa, parte proprio da qui per il suo nuovo misterioso oggetto filmico. Lo spunto di partenza è promettente (uno psicanalista laico che deve "sbloccare" un neo Papa in crisi) e produce una serie di situazioni e battute riuscite, ma nella seconda parte si perde un po' per strada, come il suo Papa spaesato. È tanto lieve e divertente nei siparietti dello psicoanalista prigioniero tra i cardinali del conclave, quanto inconsistente nel dare un vero corpo agli umanissimi dubbi del pontefice. Nonostante l'ottimo Piccoli, il suo personaggio sembra un po' irrisolto. Ci si aspetterebbe di più da questo Papa post-Wojtyla, che si perde nella Roma contemporanea, colpa forse di una sceneggiatura curiosamente reticente sui veri problemi e sui recenti scandali della Chiesa nel Terzo Millennio. A Moretti evidentemente interessa di più l'uomo che il simbolo, ma alla fine ci racconta molto poco di lui e dei motivi che l'hanno indotto a sottrarsi all'investitura.
Nanni Moretti attore è sempre irresistibile (quando fa se stesso) e inoltre qua fa sfoggio di notevole autoironia ("Sono il migliore", dice di sé. "È per questo che mia moglie mi ha lasciato…"). Come regista è bravo a scegliere le facce giuste (tutti i cardinali e lo strepitoso Jerzy Stuhr), a ritrarre con divertita leggerezza il mondo compassato del conclave, a inventare scenette surreali (l'attore cechoviano impazzito, la partita di pallavolo tra cardinali), a spargere battute intelligenti. Perciò il film sembra una boccata d'aria fresca in mezzo banalità della commedia italiana contemporanea, ma è aria condizionata. Infatti, a ben vedere il film è un bignamino delle ossessioni morettiane: psicoanalisi (Sogni d'oro, La stanza del figlio), la partita come terapia (Palombella rossa), l'uomo e la fede (La messa è finita), la cialtroneria dei giornalisti (ancora Palombella rossa), tanto per citare le prime che vengono in mente.
In conclusione, Habemus papam sembra un divertissement d'autore rispetto alle altre più dense e impegnate opere di Moretti.

Habemus papam (Italia/Francia, 2011)
Un film di Nanni Moretti.
Con Michel Piccoli, Jerzy Stuhr, Renato Scarpa, Franco Graziosi, Camillo Milli, Roberto Nobile, Ulrich von Dobschütz, Gianluca Gobbi, Nanni Moretti, Margherita Buy
Durata 104 min.

domenica 3 aprile 2011

Effetto Boris



René Ferretti e la sua troupe scalcinata (pesce rosso compreso) approdano sul grande schermo per girare un film tratto da La casta (!!!). Sarà un disastroso successo oppure solo un incubo?
La vena dissacrante e la satira cattiva sul sottobosco della produzione televisiva italiana, propria della serie culto Boris, viene applicata al mondo del cinema con risultati controversi. La forma film penalizza il ritmo e l'incalzare delle gag tipiche dell'episodio tv, il soggetto improbabile (trarre un film dal libro - inchiesta dei giornalisti Stella e Rizzo sull'onda del successo di Gomorra) non sembra far decollare come si deve questa pellicola. Non mancano delle perle geniali sparse qua e là (imperdibile la lezione del regista di cine-panettoni su come confezionarne uno di successo – una collisione di linguaggio colto e bassa volgarità, geniale l'espediente per far recitare decentemente l'attrice "cagna maledetta", divertente il cameo di Nicola Piovani, ottime alcune amare battute), ma appunto sono episodi fugaci, persi in una trama che si dilunga a prendere di mira vizi e vezzi del peggior (e del miglior) cinema italiano, senza però far ridere veramente. È una comicità intelligente, forse anche troppo, e spesso sembra che alcune frecciate siano ben comprensibili solo dagli addetti ai lavori. Lo svolgimento del plot pare una versione irriverente del classico film sul film, tipo Effetto notte di Truffaut, con tutte le vicissitudini e gli imprevisti della lavorazione (gli amorazzi da set, la morte di un attore durante le riprese, gli espedienti per trarre il meglio dalla diva, etc), ma ovviamente è solo il pretesto per sbeffeggiare un po' tutti, dal cine panettone al film d'autore. Se il risultato non sempre è all'altezza delle aspettative di una serie tv che faceva ridere veramente, è comunque superiore a molte delle commedie italiane degli ultimi tempi.

Boris - Il film (Italia, 2011)
Un film di Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre, Luca Vendruscolo.
Con Luca Amorosino, Valerio Aprea, Ninni Bruschetta, Paolo Calabresi, Antonio Catania, Carolina Crescentini, Massimo De Lorenzo, Carlo De Ruggeri, Alberto Di Stasio, Roberta Fiorentini, Caterina Guzzanti, Francesco Pannofino, Andrea Sartoretti, Pietro Sermonti, Alessandro Tiberi, Giorgio Tirabassi, Karin Proia, Massimiliano Bruno, Claudio Gioé
Durata 108 min.

martedì 29 marzo 2011

L'amore al tempo dei cloni



Triangolo d'amore e d'amicizia tra i giovani Kathy, Ruth e Tommy, in un'Inghilterra del recente passato (alternativo). Si conoscono nel grigio e isolato collegio di Hailsham, dove vengono allevati per diventare donatori di organi. S'innamoreranno, si lasceranno e si ritroveranno, ma non diventeranno mai vecchi.
Struggente film, che parte da uno spunto da fantascienza sociale molto anni Settanta (ma è tratto da un romanzo del 2005 di Kazuo Ishiguro), per parlare degli eterni grandi temi: cosa fa di un uomo un uomo, cos'è l'amore, qual è il senso della vita.
La vicenda viene narrata in flashback da Kathy (un'intensa Carey Mulligan) e questo punto di vista parziale giustifica alcuni punti oscuri che fanno sorgere nello spettatore ovvie domande: i protagonisti sono dei cloni o degli orfani molto sfortunati? perché sono così rassegnati al loro destino? sono stati condizionati mentalmente? vengono drogati? sono sterili? La pellicola lascia inevase queste domande per portare la storia ad un livello più astratto e rarefatto.
Raccontando le brevi vite dei tre protagonisti, con tutti i loro sentimenti e i loro ingenui sogni, il film ci mostra come la vita e l'amore scorra in tutte le creature, anche in quelle create con l'unico scopo di fornire ricambi ad umanità immortale e crudele. I protagonisti vengono resi più umani possibile e alla fine non si capisce perché e per chi debbano morire. Dell'umanità a cui donano gli organi vediamo ben poco, perché i donatori vivono gran parte delle loro vite appartati e spesso incapaci di relazioni nel mondo reale. La pellicola sottolinea questo senso di smarrimento e lontananza con efficaci ambientazioni molto british (fredde spiagge deserte, campagne brumose, cittadine sul mare spopolate, fattorie remote).
Il film, che si avvale di un notevole cast di giovin attori, è pieno di scene di raffinata crudeltà psicologica. La più agghiacciante spetta alla direttrice del collegio, interpretata da una gelida Charlotte Rampling (perfettamente a suo agio), quando spiega a Kathy e Tom adulti che i "metodi umani" nel suo istituto, ormai chiuso, servivano solo a dimostrare al mondo che i suoi "bambini speciali" avessero un'anima. Ma il mondo non volle rinunciare comunque ai suoi donatori di organi.
Film bello ma impegnativo, da vedere un giorno che siete un po' troppo felici.

Never Let Me Go (USA/Gran Bretagna, 2010)
Un film di Mark Romanek.
Con Carey Mulligan, Andrew Garfield, Keira Knightley, Isobel Meikle-Small, Ella Purnell, Charlie Rowe, Charlotte Rampling, Sally Hawkins
Durata 103 min.

sabato 19 febbraio 2011

Non è un paese per ragazzine



Una ragazzina tosta e determinata assolda un vecchio sceriffo guercio e ubriacone per catturare l'assassino di suo padre. Si unisce a loro un Texas ranger. Giustizia sarà fatta.
I fratelli Coen scelgono un vecchio romanzo (già portato sullo schermo con successo nel 1969 con John Wayne protagonista) per la loro personale incursione nel western. Se la trama resta simile, svolgimento e atmosfere sono ben diverse. La vicenda è narrata in prima persona dalla giovane Mattie Ross, adolescente grintosa e impavida, ancor più dell'appesantito sceriffo alcolista Reuben J. Cogburn (uno strabordante Jeff Bridges) e dello sputasentenze texano La Boeuf, interpretato da un irriconoscibile Matt Damon. Donna giovane in un mondo di uomini duri e violenti dovrà mettercela tutta per avere il loro rispetto e lo conquisterà sul campo. La quasi esordiente Hailee Steinfeld (proprio come il suo personaggio) tiene testa alle star del film e si porta a casa una meritata nomination agli Oscar (e ci fa anche dimenticare che forse è troppo carina per quel ruolo).
L'impianto del film è piuttosto tradizionale, da western mainstream direi, ma senza fronzoli o edulcorazioni. Anzi, le atmosfere sono brutalmente realistiche. È un West freddo, spoglio, slavato, dove né gli uomini né la natura regalano nulla, un paese senza veri eroi, perché chi oggi è sceriffo ieri magari era un bandito. Ma al momento giusto gli uomini veri sanno cosa fare. Il finale struggente – e dolorosamente lucido – regala al film il gusto dolce amaro della vita vera.
Le uniche concessioni al cinema più originale dei Coen sono l'incipit e la splendida – quasi allucinata – cavalcata notturna nel pre-finale. Per il resto tutto scorre come in un film d'altri tempi, ma con un sapore diverso, più aspro.
Non sorprende perciò che Il Grinta sia stato un successone in patria, il maggior incasso di sempre dei fratelli Coen e il miglior incasso di un western degli ultimi dieci anni – per non parlare delle dieci nomination agli Oscar.
Onore a John Wayne ma anche questo Grinta lebowskiano non è niente male. Da vedere.

True Grit (USA, 2010)
Un film di Ethan Coen, Joel Coen.
Con Jeff Bridges, Matt Damon, Josh Brolin, Hailee Steinfeld, Barry Pepper
Durata 110 min.

domenica 13 febbraio 2011

Fiabesque



Riecco la fiaba della giovane campagnola povera e orfana, ma con un gran talento, che va nella Grande Città in cerca di fortuna. Come finisce? La troverà.
Trama quasi confortante nella sua prevedibilità: ma trattandosi di un film musicale serve solo a pretesto per le varie esibizioni canore e coreografiche. Il film è cucito addosso a Christina Aguilera e - ovviamente - alla rediviva Cher, inquietantemente con la stessa faccia negli ultimi vent'anni (complimenti al chirurgo!). Diciamo che non è un capolavoro, anche se ben sopra la media di film simili, grazie ad un cast di livello e battute frizzanti. Ha ritmo, è colorato e con una colonna sonora adeguata (il brano "You Haven’t Seen The Last Of Me" nell'intensa interpretazione di Cher è stato pure premiato con un Golden Globe*). Ma gli estenuanti virtuosismi della Aguilera alla lunga annoiano e costumi e scene spesso ricordano un po' troppo Moulin Rouge. E poi perché chiamano Stanley Tucci a fare sempre il gay simpatico a spalla della diva di turno? E perché non c'è un cattivo decente? Forse ci sarebbe voluto un po' più di coraggio, perché alla fine sembra un lungo videoclip della Aguilera o un mega spot di audace intimo femminile. È evidente che è un film per un pubblico ben preciso, innanzi tutto femminile e gay: i maschi trascinati dalle loro compagne (è il mio caso) non sapranno apprezzarlo fino in fondo. La prossima settimana ricambio il favore con Il Grinta!

Burlesque (Australia, 2010)
Un film di Steve Antin.
Con Cher, Christina Aguilera, Eric Dane, Cam Gigandet, Julianne Hough, Stanley Tucci
Durata 116 min.

* Ma è circola la notizia che la Sony (produttrice del film) abbia comprato i membri della giuria per aggiudicarsi nomination e premio. Leggi di più

domenica 6 febbraio 2011

La parola ritrovata



Inghilterra, anni Trenta. Dopo l'abdicazione di Edoardo VIII (che rinuncia al trono per sposare con grande scandalo Wallis Simpson, donna divorziata americana), sale al trono il fratello Albert con il nome di Giorgio VI. C'è solo un problema: è affetto da una balbuzie nervosa che gli impedisce di parlare in pubblico. Le cose si complicano quando l'Inghilterra scende in guerra contro il Terzo Reich, che ha un'oratore da brivido come Herr Hitler. Sua Maestà verrà aiutato da Lionel Logue, un anti-convenzionale logopedista australiano.
Il film sembra proprio una macchina da Oscar™: una piccola grande storia (vera), una sceneggiatura millimetrica, un'ambientazione curata e una manciata di attori strepitosi. Tutto si gioca sull'incontro-scontro tra due caratteri diversi, per stato sociale e indole, il complessato re suo malgrado e l'anticonformista e istrionico "uomo comune" che lo curerà. Perfettamente calati nei due ruoli Colin Firth – in una delle sue migliori interpretazioni di sempre - e Geoffrey Rush. L'origine della balbuzie ha radici nell'infanzia e nella mortificante educazione di corte che su Albert sembra aver avuto lo stesso effetto dei traumi di guerra sui reduci della Prima Guerra Mondiale, curati in Australia da Logue. Scardinate le convenzioni sociali e abbattuto il muro di solitudine che sembra imprigionare il sovrano, l'abile australiano riuscirà ad arrivare all'animo dell'umanissimo re, aiutandolo a sconfiggere il nemico più grande: la paura.
Il regista scommette di catturare il pubblico con un film biografico dall'impianto tradizionale, incentrato sulla parola e la sua assenza. Ed esso cresce sequenza dopo sequenza, deflagrando trionfalmente alla fine in un epico discorso radiofonico – una delle cose meno cinematografiche che si possano immaginare – vincendo alla grande la sfida.
Quasi a fare da contraltare ad una struttura narrativa piuttosto convenzionale, c'è uno stile visivo di grande impatto, con un bel uso di grandangoli e di inquadrature fortemente scorciate (con la macchina da presa seppellita nel pavimento stile Orson Welles in Quarto potere) e l'obiettivo spesso addosso agli attori. Insomma un film perfetto, anche troppo, e questo è l'unico difetto. Certo, 12 candidature agli Oscar™ forse sono troppe, ma un paio sono sicuramente meritate. Ad una settimana dall'uscita la sala era ancora incredibilmente gremita: è scattato il passaparola e questo vuol dire pur qualcosa. Forse può sembrare un film per signore, ma lo consiglio a tutti.

The King's Speech (Gran Bretagna, Australia, 2010)
Un film di Tom Hooper.
Con Colin Firth, Geoffrey Rush, Helena Bonham Carter, Guy Pearce, Jennifer Ehle.
Durata 111 min.

giovedì 13 gennaio 2011

La vita è adesso



Tre personaggi incontrano la morte: Marie è una giornalista sopravvissuta allo tsunami, George è un sensitivo il cui dono di parlare ai morti gli ha avvelenato la vita, il piccolo Marcus ha perso il fratello gemello e non riesce più a vivere. Tre storie drammatiche che finiranno per intrecciarsi.
Titolo programmatico (Hereafter, l'aldilà) per un film che vuole affrontare in modo laico il tema della morte e di quello che c'è (o non c'è) dopo. Niente consolatorie favolette religiose, solo la distaccata discesa nelle vite di una manciata di personaggi che con la morte - in modi diversi - si sono confrontati. È un film che non dà nessuna risposta, pone dei quesiti e non si accontenta delle facili risposte della fede: significativa la sequenza del funerale del bambino, con il prete frettoloso, la squallida cappella semideserta, la predichetta standard e un altro funerale in attesa fuori dalla porta. È una delle poche sequenze in cui appare un rito religioso. Perché appunto è un film laico e sembra quasi una bestemmia dirlo oggi in Italia. Perché la morte e l'aldilà non possono e non devono essere un'esclusiva della religione. Purtroppo la ragione e la scienza sembrano non offrire alternative decenti a chi subisce un lutto o un'esperienza sconvolgente di morte temporanea. Ma l'insegnamento di nonno Clint è di vivere pienamente la nostra vita e di non preoccuparci troppo di quello che ci aspetta dopo la nostra dipartita. Insomma la vita è adesso, è in questo mondo che dobbiamo trovare l'amore, la pace e superare anche le perdite più dolorose. Probabilmente è questo il vero senso di un finale – in apparenza troppo facilmente consolatorio – in cui i tre protagonisti trovano ciascuno una risposta ai loro drammi.
Hereafter non è un film perfetto – il dipanarsi della trama è piuttosto scontato (nonostante la sceneggiatura firmata da Peter Morgan), il finale non brillante e la colonna sonora (dello stesso Clint) un po' piatta e monotona – ma dimostra una coraggiosa volontà di perseguire un cinema personale e denso nei contenuti. Inoltre è ottimamente girato e riesce pure a sorprenderci con una magistrale sequenza d'apertura da far invidia a Roland Emmerich ed evitando accuratamente una precisa rappresentazione dell'aldilà, che in troppi film finisce per scadere nel kitsch (Al di là dei sogni, o anche Amabili resti). In conclusione, Hereafter è un film discontinuo ma onesto, che vi lascerà con una scia di pensieri sulla vita e sulla morte piuttosto rari al giorno d'oggi. O vi piacerà o l'odierete.

Hereafter (USA, 2010)
Un film di Clint Eastwood.
Con Matt Damon, Cécile De France, Joy Mohr, Bryce Dallas Howard, George McLaren
Durata 129 min.

sabato 1 gennaio 2011

Rin-tron



Il giovane Sam, figlio del geniale programmatore Kevin Flynn, finisce risucchiato in un mega-computer, dove il padre è ostaggio della sua creatura da più di vent'anni. In questo mondo da videogame oscuro, violento e totalitario, Sam avrà modo di confrontarsi con il genitore e di maturare come uomo.
Quattro motivi per andare vedere Tron Legacy:
1) Il ricordo di Tron, un film visivamente d'avanguardia
2) Due Jeff Bridges al costo di uno, anche se nel film ha battute insensate tipo "Vado ad ascoltare il suono del cielo" (Jeff, quel suono che senti è il pubblico che ronfa in sala)
3) Olivia Wilde in tutina aderente
4) La colonna sonora dei Daft Punk (se vi piace il genere), che è piacevolmente retrò e ruba molto al Vangelis di Blade Runner e al Carpenter di 1997 - Fuga da New York.
Perché alla fine questo pseudo remake (parzialmente in inutile 3D) non ha molto altro di nuovo da offrire. Tutte le idee buone che ci sono erano già nel Tron del 1982 e quello sì che era un film rivoluzionario: immagini generate al computer, mondi virtuali, estetica da videogame e il tutto realizzato con i limitati mezzi dell'epoca*. In questa nuova versione la CGI dilaga e rifà le stesse sequenze dell'originale con la potenza della tecnica di oggi: il film è costato uno sproposito (più di Avatar, pare) e si vede, peccato abbiano risparmiato (come per Avatar) sulla sceneggiatura. Infatti la storia non è poi così coinvolgente e all'ennesima inutile lunga perfetta scena da videogame, ci si annoia un po'. Per non parlare di tutta una serie di echi da altri classici della fantascienza messi là tanto per dare un tono finto autoriale ad un film di puro intrattenimento. Tanto per fare un esempio: eterna notte cupa e finale solare (Blade Runner), la scenografica casa di Flynn (2001 Odissea nello Spazio), Tron, l'eroe buono che diventa cattivo, si nasconde sotto un casco impenetrabile, e poi si redime alla fine (come il Darth Vader di Star Wars)… e via "citando".
Una nota di merito per la resa molto credibile del clone giovane di Jeff Bridges, perfetto attore virtuale e per l'intermezzo di Castor, un divertito e divertente Michael Sheen.
Ma alla fine viene voglia di rivedersi il vecchio Tron, con gli omini al neon dipinti a mano e le motociclette 3D che oggi fanno tanta tenerezza.

Tron legacy (USA 2010)
Un film di Joseph Kosinski.
Con Jeff Bridges, Garrett Hedlund, Olivia Wilde, Michael Sheen, Bruce Boxleitner.
Durata 127 min.

* Guardatevi questo simpatico documentario dell'epoca sulla creazione delle immagini digitali di Tron e scoprirete l'enorme computer usato e la stupefacente sala con i banchi di memoria grandi come lavatrici!