domenica 22 ottobre 2017

A colpi di racchetta


Billie Jean King è una campionessa di tennis che nei primi anni Settanta si batte per la parità di compensi tra giocatori uomini e donne nei tornei. L’ex campione di tennis cinquantenne Bobby Riggs la sfida a batterlo in una partita che passerà alla storia.
La curiosa storia vera di questo evento viene narrata con tocco leggero dai registi Jonathan Dayton e Valerie Faris (marito e moglie), che ci portano negli anni dei primi movimenti di liberazione femminile e delle conseguenti paternalistiche e irridenti reazioni maschili.
Il film sceglie di concentrarsi più sull’evento sportivo che sugli aspetti sociali della lotta per i diritti delle donne. Dopo una partenza promettente, il film si limita a mettere in scena un clownesco Steve Carell (Bobby) mentre cerca di rinverdire i fasti di una carriera sportiva ormai finita e una mimetica Emma Stone (Billie Jean), divisa tra sacrosante battaglie civili, lo sport e una complessa vita sentimentale. Così le rivendicazioni femminili all’interno di un ambiente gretto e maschilista vengono presto lasciate presto per strada per seguire la vita privata di Billie Jean o i siparietti buffoneschi di Bobby. Senza grandi invenzioni di regia si arriva allo scontro finale, ma con la sensazione che forse molte cose più interessanti siano state lasciate fuori dal film.
Quest’ultima opera di Dayton e Faris – molto più incisivi nel loro film d’esordio, il delizioso Little Miss Sunshine – non osa mai troppo e scivola via senza infamia e senza lode.

La battaglia dei sessi (Battle of the Sexes, USA / Gran Bretagna, 2017)
Un film di Jonathan Dayton, Valerie Faris.
Con Emma Stone, Steve Carell, Andrea Riseborough, Sarah Silverman, Martha MacIsaac.
Durata 121 minuti.


martedì 17 ottobre 2017

Una biografia dipinta


Un anno dopo la morte di Vincent Van Gogh, Armand Roulin viene incaricato dal padre di consegnare a Theo Van Gogh una lettera da poco ritrovata del pittore. Questo lo spunto per raccontare gli ultimi anni di vita dell’artista, attraverso le testimonianze – spesso contraddittorie – delle persone che l’hanno conosciuto e che lui ha ritratto. Tale espediente narrativo, che sembra preso pari pari da Quarto potere di Orson Welles, permette di inserire il maggior numero possibile di ritratti nel film, grazie al fatto che Van Gogh ha usato come modelli molte delle persone che incontrò sul suo cammino, dal postino Roulin al dottor Gachet.
Ma il punto forte del film non è certo la trama, ma la sua tecnica. Infatti Loving Vincent anima letteralmente un'impressionante serie di capolavori ridipingendoli fotogramma per fotogramma. Centinaia di pittori hanno materialmente dipinto tutto il film a olio su tela, grazie anche al supporto di sofisticate tecniche digitali, ma sostanzialmente realizzando tutto il lavoro a mano. Questo permette di addentrarci nei più noti dipinti di Van Gogh, o di vedere i suoi ritratti più celebri prender vita e diventare protagonisti di un'indagine sulla sua morte. Il trucco non sempre funziona bene: è impressionante quando aderisce allo spazio pittorico piatto e deformato dell’artista, muovendo solo alcune parti del quadro, o quando la “macchina da presa” entra in un dipinto, un po’ meno quando propone scene di azione più complesse (avvalendosi della rodata tecnica del rotoscope che si basa su filmati di attori ridipinti) o nei flash back in bianco e nero (molto raffinati ma più vicini al cinema noir che alla pittura vangoghiana).
Nei momenti migliori sembra di essere davanti ad un quadro stregato: la pennellata e la matericità della pittura sono così fisiche che sembra quasi di sentire l’odore dell’olio di lino. Il film è il più grande, eccentrico ed affettuoso tributo all’opera di Van Gogh mai visto e una tangibile testimonianza del grande amore popolare di cui gode la sua arte oggi. Da vedere.

Loving Vincent (Gran Bretagna / Polonia, 2016)
Un film di Dorota Kobiela, Hugh Welchman.
Con Aidan Turner, Helen McCrory, Saoirse Ronan, Douglas Booth, Jerome Flynn.

domenica 15 ottobre 2017

Al ritmo del contagio


Nella Parigi all’inizio degli anni Novanta gli attivisti di Act up - Paris organizzano azioni clamorose per costringere le case farmaceutiche e il governo a essere più solerti nella lotta contro l’AIDS: i membri dell’associazione sono drammaticamente motivati, essendo quasi tutti o sieropositivi o già ammalati. Ispirato a storie vere, il film ha vinto il Gran Premio della Giuria a Cannes.
L'opera di Robin Campillo affronta il tema in modo distaccato e quasi documentaristico, raccontando tutti gli aspetti delle lotte di Act Up, anche quelli meno d’effetto come le interminabili riunioni preparatorie e le diatribe interne. Il film passa progressivamente dal pubblico al privato, dedicando la seconda parte alla storia d’amore di due attivisti, l’esuberante Sean e il tranquillo Nathan, tanto per mettere nella giusta prospettiva le battaglie di persone che lottano per la propria sopravvivenza nell’indifferenza delle istituzioni. Con stile asciutto e senza usare facili trucchetti lacrimevoli ci si addentra nel quotidiano inferno personale dei malati e – contemporaneamente – si mette in scena il lucido coraggio di persone comuni che lottano per la salvezza di una comunità colpevolmente ignorata e condannata.
In tempi di reflussi omofobi e bigotti, un film quanto mai necessario e sincero.

120 battiti al minuto (120 battements par minute, Francia, 2017)
Un film di Robin Campillo.
con Nahuel Pérez Biscayart, Arnaud Valois, Adèle Haenel, Antoine Reinartz, Félix Maritaud.
Durata 135 minuti.

venerdì 6 ottobre 2017

Gli androidi ricordano cavallini elettrici?


In una Los Angeles – se possibile – peggiore di quella lasciata nel film precedente, l’Agente K è un blade runner, un cacciatore di vecchi modelli di replicanti messi fuori legge. Lui stesso è un androide, ma di ultima generazione, e si trova coinvolto in un’indagine dagli esiti esplosivi per il precario equilibrio sociale di un mondo ormai al collasso. La sua ricerca della verità sarà anche un viaggio alla scoperta di se stesso, tra ricordi impiantati, sogni di umanità e il desiderio di trovare un padre.
Dare un seguito al film culto, praticamente perfetto, di Ridley Scott è un’impresa sconsiderata, ma così funziona il cinema oggi… Il vecchio Ridley, dopo aver riportato nelle sale il suo Alien, ci prova con uno dei film di fantascienza più influenti del secolo scorso, ma questa volta lascia il timone al "giovane" Dennis Villeneuve (Arrival).
Detto questo, il talentuoso regista canadese riesce a realizzare un film personale, cannibalizzando l’universo del capostipite e piegandolo alla sua visione, regalandoci una pellicola dai toni spettacolarmente crepuscolari, malinconici, a volte struggenti. L’agente K (nome kafkiano per il laconico protagonista) finisce in una storia più grande di lui e perde il suo smalto da soldatino perfetto per ritrovare – o illudersi di ritrovare – un scintillio di umanità. In perfetto stile dickiano, realtà e illusione si confondono. Così, impeccabili donne virtuali si fondono con donne reali per amoreggiare con androidi che pensano di essere umani. Il ricordo impiantato di un cavallino nascosto da bambino, porta il cacciatore di replicanti, che non è stato mai bambino, a ritrovare il suo giocattolo perduto. Un creatore cieco che vuole salvare l’umanità, crede al miracolo di una concezione impossibile: un figlio nato da replicanti, l’uomo nuovo. E infine c’è Deckart, il vecchio blade runner, nascosto per trent’anni in una spettrale Las Vegas, in compagnia di un cane e dell’ologramma di Elvis, motore nascosto della trama del film e pedina, a sua volta, del gioco degli dei.
Magnificamente fotografato dal grande Roger Deakins, Blade Runner 2049, è un film lento e avvolgente, intriso di una decadente tristezza, in un mondo di macchine terribilmente consapevoli di sé e di un’umanità irrimediabilmente perduta. Chi ha amato il primo, non lo disdegnerà.

Blade Runner 2049 (USA, 2017)
Regia di Denis Villeneuve.
Con Ryan Gosling, Harrison Ford, Ana de Armas, Sylvia Hoeks, Robin Wright, Dave Bautista, Jared Leto
Durata 152 min.